Gestire l’acqua

acquaIl 20 marzo scorso presso la Fondazione Benetton Studi e Ricerche a Treviso è stato organizzato il dibattito: “Pubblico o privato? Gestire l’acqua nell’emergenza, prima e dopo il referendum”.

Il focus generale era appunto il tema della gestione pubblica dell’acqua dopo il Referendum del 2 giugno scorso, l’approfondimento riguardava le tariffe ed il secondo quesito referendario.I I relatori erano di eccellenza, si andava dai presidenti agli amministratori delegati delle aziende dell’acqua regionali: ATS, VERITAS, ETRA, ACQUE VICENTINE, ecc., rappresentanti dei comitati: “Comitato Veneto Acqua Bene Comune” e “Contratto Mondiale dell’Acqua – Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua”, completavano il gruppo Presidenti e Dirigenti delle AATO del Veneto. Non ho avuto dubbi a cancellare altri impegni per essere presente all’evento.

Ho poi pensato di fare di più, di rendere questo dibattito un elemento di formazione per gli studenti del Master Interuniversitario “Ingegneria Chimica della Depurazione delle Acque e delle Energie Rinnovabili” che dirigo ormai da nove anni. Ebbene, gli studenti se ne sono andati prima della fine!

Perché questo? Perché studenti laureati in discipline scientifiche che decidono di dedicare dopo la laurea magistrale un anno ad approfondire le problematiche dell’acqua, non sono stati attratti da questo dibattito? Perché non hanno seguito la discussione? Perché non hanno dato un contributo?

Forse perché si è esagerato nel focalizzare l’attenzione alla remunerazione del capitale sugli investimenti e non si è affrontato il problema di come portare il settore ai livelli che la salvaguardia dell’ambiente e la salute dell’uomo meritano, visto che l’acqua è il driver della vita! Ho parlato di questo con un “ingegnere dell’acqua”, abbastanza giovane perché possa comprendere il comportamento degli studenti del Master, ma anche molto esperto (ritenuto tale dal mondo tecnico scientifico internazionale) perché possa indicare ai nostri gestori del ciclo dell’acqua quali sono le priorità su cui focalizzare l’attenzione e gli sforzi, snellendo la burocratica ragioneria. Si potrebbe obiettare che era il tema specifico dell’incontro. E’ vero, ma era l’approfondimento da inquadrare appropriatamente!

Ing. Francesco Fatone, innanzitutto, vuole fornirci brevemente la sua biografia?

Sono ricercatore di Impianti Chimici presso l’Università di Verona, tra gli editori di 4 riviste scientifiche internazionali, vicepresidente del più numeroso gruppo specialistico dell’International Water Association, autore di circa 30 lavori pubblicati su riviste scientifiche di livello internazionale, con indice di impatto, citati 174 volte. Un Hindex pari a 9 può riassumereil mio contributo all’avanzamento della conoscenza.

Quali sono oggi gli obiettivi che il gestore deve porsi in relazione al quadro evolutivo delle infrastrutture del ciclo dell’acqua? Come siamo messi in Italia rispetto al resto d’Europa?

Gli obiettivi comunitari del trattamento delle acque reflue urbane sono stati definiti 22 anni fa dalla UE, con la Direttiva Urban Waste Water Treatment Directive (271/91/CE), recepita dall’Italia con il decreto legislativo 152/99. Nel 2000, poi, l’UE ha compiuto una mossa del tutto innovativa adottando la direttiva quadro sulle acque. Questo atto prevede anche il coordinamento tra varie politiche dell’UE, con azioni a cadenze precise, fissando il 2015 come data entro cui le acque di tutta Europa dovranno essere in buone condizioni, ecologiche e chimiche. Per raggiungere questo obiettivo al 2015, una delle azioni ha fissato i limitidelle emissioni di nutrienti (azoto e fosforo), distinguendo i bacini idrografici in base alla loro sensibilità.

Quanto siamo distanti dagli obiettivi preposti?

Secondo la commissione europea, che monitora l’attuazione della direttiva quadro, in tutto il territorio dell’UE “ci sono stati progressi, ma non bastano”. E il quadro italiano rispetto a quello europeo? Una mappa molto chiara è stata recentemente resa disponibile sul portale WISE (Water Information System for Europe) e nel documento “6th CommissionSummary on the Implementation of the Urban Waste Water Treatment Directive” del Dicembre 2011. Nelle conclusioni l’UE annovera l’Italia, assieme al Portogallo, Irlanda, Belgio e Lussemburgo tra i Paesi della UE-15 che devono maggiormente impegnarsi per raggiungere gli obiettivi comunitari. I dati recenti di gestione tecnica sono reperibili sul rapporto dell’Agenzia Nazionale per la Protezione dell’Ambiente e del Territorio (APAT (oggi ISPRA), 2005) sulla consistenza e funzionalità degli impianti di depurazione. In Italia difficilmente vengono raggiunte concentrazioni di azoto totale effluenti dai depuratori al di sotto dei 10 mg/L (come concentrazione media annua). Sempre secondo dati APAT, inoltre, strutturalmente gli impianti sarebbero in grado di migliorare la performance di efficienza ed efficacia, se gestiti in modo ottimale. In conclusione, l’adeguata rimozione dei nutrienti dalle acque reflue è una problematica nota da decenni, ma non risolta.

Si devono rifare gli impianti o si devono mettere in campo maggiori conoscenze per utilizzare al massimo gli esistenti?

Secondo recenti dati dell’APAT, in Italia sono in esercizio circa 15000 impianti di depurazione. La maggior parte ha potenzialità inferiore a 2000 abitanti equivalenti ed è stata realizzata prima del 1990. Il dibattito sulla dismissione o l’ottimizzazione dell’esistente è tra i più accesi e controversi. Come in altri settori, anche per la depurazione, il giusto approccio dovrebbe prevedere il recupero e l’ottimizzazione delle infrastrutture esistenti. Solo dopo aver ottenuto le massime rese dagli impianti esistenti si dovrebbe pensare alle nuove opere.

Come fare?

E’ necessario un cambio di paradigma: i depuratori sono degli impianti bio-chimici, e come tali possono e devono essere pensati, progettati e gestiti.Ad oggi la maggior parte dei processi depurativi operano secondo tecniche convenzionali, senza cedere il passo ai processi innovativi, nonostante questi abbiano ampiamente dimostrato affidabilità e convenienza. I principali costi operativi derivano oltre che per l’impegno del personale, dai sistemi di aerazione e dallo smaltimento dei fanghi di depurazione. Ad oggi esistono, e sono diffusamente validati, sistemi di monitoraggio e controllo automatico di processo che vanno ad influire drasticamente su queste voci di spesa, ottimizzando contemporaneamente la qualità dell’effluente. Tuttavia, si confonde l’innovazione con il rischio e si opta per opere idrauliche ben più costose: chilometri di collettori fognari ed opere idrauliche ed ampliamenti di grandi impianti, costruiti ed eserciti con tecniche poco efficienti. Non voglioperò generalizzare: le decisioni devono essere prese a fronte di un’analisi territoriale e multicriterio, che permetta di valutare la sostenibilità, non solo economica, degli interventi. Devo comunque affermare che l’ottimizzazione dell’ingegneria di processo deve essere sempre valutata con la massima priorità, perché questa permette spesso di ottimizzare i costi e portare rilevanti benefici per l’ambiente.

Verso quali obiettivi si stanno muovendo gli altri paesi? Con quali tecnologie?

Abbiamo detto come il problema dei nutrienti sia “vecchio ma attuale”. Nonostante questo, l’attenzione della UE si è allargata ad altri gruppi di contaminanti non-convenzionali, le sostanze pericolose, così denominate in quanto tossiche, persistenti e bioaccumulabili. Si tratta di metalli pesanti, tensioattivi, sostanze organiche refrattarie alla biodegradazione, composti organici volatili che sono contenuti in concentrazioni molto basse nelle acque reflue, ma che sono tossici a bassi livelli, perché persistenti e bioaccumulabili. A questi si stanno recentemente aggiungendo i contaminanti emergenti, come farmaci e prodotti per la cura personale, così definiti perché la loro pericolosità non è stata ancora provata scientificamente.

Cosa accomuna i contaminanti non-convenzionali ed emergenti?

Il fatto che i depuratori esistenti non siano stati progettati per rimuovere quest’ultimi, che dunque le tecniche convenzionali devono essere validate per tali funzioni ed eventualmente ammodernate.

Come ammodernarle?

Bisogna favorire i processi chebio-degradano i composti recalcitranti attraverso anche meccanismi complessi quali l’adsorbimento a sostanza particolata e la successiva rimozione dal flusso liquido. Pertanto, processi di filtrazione su membrana come mezzo fisico di trattenimento degli inquinantio come supporto per enzimi o chemicals che interagiscono con gli inquinanti specifici magari attraverso processi di ossidazione avanzata ecc. Tutto questo dovrebbe essere considerato anche nei depuratori urbani.

E sulla questione dei microinquinanti nei fanghi ed il loro possibile smaltimento in agricoltura che sembra vada verso il divieto?

La produzione di fanghi di depurazione è enorme: secondo dati APAT (2005) in Italia vengono stimati circa 4.2 milioni di tonnellate all’anno. La migliore tecnica e pratica disponibile per il loro smaltimento è pertanto un problematica di priorità nazionale. Posto che secondo nelle linee di tendenza attuali lo smaltimento in discarica andrà a scomparire, l’impossibilità dello smaltimento in agricoltura porrebbe interrogativi a cui bisogna dare comunque risposta. Certamente le norme per il riutilizzo in agricoltura devono essere precise e stringenti, ma credo che si debba comunque agire su scala territoriale e valutare le diverse opzioni praticabili. Il problema è comunque complesso, le sostanze pericolose adese ai fanghi potrebbero avere effetti tossici di lungo termine, credo che dobbiamo evitare la banalizzazione di una problematica così complessa, evitando anche eccessive restrizioni normative.

Il mondo tecnico scientifico è in grado di dare un contributo?

Certamente. Recentemente è stato siglato un protocollo di intesa tra CRUI e Federutility teso a creare la giusta sinergia tra ricerca scientifica e settore dei servizi. Inoltre, da anni sono attivi consorzi universitari tematiciche mettono insieme le eccellenze dei vari settori. Questo è un aspetto che lei conosce bene presiedendo il Consorzio INCA al quale sono affiliati anchetecnici della depurazione, capaci di pensare, progettare e gestire secondo approcci innovativi, allo stato dell’arte.

Appare evidente, dalla chiacchierata fatta, che l’attenzione degli operatori dell’acqua non debba limitarsi agli aspetti economici discussi nell’incontro ma debba sempre associare alla contabilità ragionieristica (che evidentemente piace molto, forse perché più semplice e alla portata…) il conto che lasciamo da pagare ai nostri figli e nipoti. Cioè, non possiamo sottrarci dal valutare l’impatto ambientale delle nostre scelte.

Oggi questi concetti sono ben noti e possono essere tradotti in elementi economici, come le soluzioni tecnologiche avanzate di cui ci ha parlato l’Ing. Fatone. Allora la conclusione è che il mondo della gestione dell’acqua deve crescere in qualità dando maggiori possibilità di lavoro ai giovani che si impegnano in tal senso evitando di farsi bocciare dall’abbandono dell’aula.

Stiamo parlando di un approccio che punta alla competenza e alla meritocrazia, un approccio… verso nord!

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