C’è un’età dell’”incanto”, quella in cui credi a Babbo Natale, ti fai rapire da una favola o un fumetto, dalle narrazioni di un grande che racconta e ti lasci dolcemente naufragare emozionato in quel mare. Abbiamo un sacro diritto a quella dimensione, fatta di momenti che ricorderemo tutta la vita, prima che arrivi quella del “disincanto”, quando l’ambiguità delle parole e delle relazioni prenderà il sopravvento nel nostro spaesamento e nell’equivocato senso, squadernandoci la complessità sfuggente e contraddittoria delle umane cose.Mi chiedo allora se a otto anni non si subisca una certa foga intellettualistica quando – siamo in terza elementare – per compito ti viene già chiesto di smontare una fiaba nei suoi elementi strutturali, trovarne il “protagonista”, l’”antagonista”, le “prove attitudinarie”, il “lieto fine”, in un’analisi drammaturgica che smaschera il dietro le quinte dei meccanismi della messinscena. Siamo sicuri che sia pedagogicamente sensato? Non dovremmo invece lasciare vergine e potente in tutta la sua forza quell’incanto, perché un giorno da adulti ne resti vivida la risonanza antica? Non è forse quel sentimento che ci renderà possibile lanciare il cuore oltre l’ostacolo per affrontare difficili prove, fare di un sogno un obiettivo di vita, fare di ogni giorno che ci separa da un possibile traguardo un momento di espressione ideale, di creatività, fascinazione, entusiasmo ed energia?La nostra psiche ancora da adolescenti sogna a occhi aperti. All’età giusta si propongano le esperienze psichiche, simboliche, intellettive giuste. Quelle della rielaborazione razionale e consapevole della fantasia vengano quando sarà ora.Ho provato a leggere a mio figlio la fiaba del «Re nudo» ieri sera, dopo che la scuola lo aveva impegnato in alcuni di questi smontaggi analitici, con tabelle sistematiche dei tipi, dei caratteri, dei “luoghi della narrazione”, degli “artifici” letterari, uno dei quali anche ieri pomeriggio il piccolo aveva dovuto eseguire, a spese della verginità fiabesca dell’intreccio, dell’orrore iconico di una stregaccia perfida, dell’avvincente rocambolesco cavarsela dell’eroe di turno.Leggevo, ma non vedevo né percepivo nel suo respiro sommesso quello stesso abbandono di altri magici momenti in cui ci si era appartati in lettura. Forse mio figlio, ascoltando la mia impacciata recitazione, già era troppo preoccupato di capire chi fossero l’antagonista e il protagonista, quali le prove da affrontare e quale il lieto fine e mi stava dimostrando di aver già inquinata la possibilità di lasciarsi andare del tutto all’incanto, a quella spontanea percezione simbolica e valoriale che sola è capace di introiettare il senso profondo e formativo del testo archetipico di una fiaba.Gli abbiamo già dato i rudimenti per diventare un buon critico letterario ed esperto forse di scrittura creativa, ma forse gli abbiamo sottratto quella fetta d’infanzia che un po’ ipocritamente certa pedagogia afferma invece di voler tutelare. E della sua capacità di “bambino competente” abbiamo fatto brandelli, perché secondo me non era quello di cui aveva necessità, ora.La sensazione è che questa società stia mandando in pappa se stessa disimparando sempre più a educare i propri figli, facendone immemori orfani di strade che nessuno più indica loro. E queste analisi strutturali e ricerche di segmenti narrativi, a quanto pare, non riparano per nulla dallo sprofondamento adolescenziale nella temperie dominante delle palestre dopanti, dei videogames violenti e rapidi, dello sballo, di una fiction plastificata, di tronisti, finti litigi televisivi da comari, reality, chimica ingerita e inalata e così via, nel disincanto privo di futuro dell’oggi…
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