Ai tempi del fattore K i comunisti candidavano figure indipendenti, esterne, non di partito, ritenendo che l’esposizione in prima persona avrebbe spaventato i moderati. La tesi trovò conferma nella sconfitta della “poderosa macchina da guerra” nel ‘94 ad opera di Silvio Berlusconi.
Così, quando si trattò di buttar giù Berlusconi, si tornò all’antico: il Pds si appoggiò al liberale Lamberto Dini e poi, per sfidarlo alle elezioni, chiamò Romano Prodi, un cattolico democratico che portava in dote il Partito Popolare. Proprio per superare questa anomalia fu fondato il Partito democratico, che fondeva le esperienze dei Ds, dei popolari e dei socialisti, ovviamente di quelli restati nel campo del centro-sinistra e puntava all’autosufficienza, che in realtà non è mai arrivata, a causa dei cattivi risultati elettorali. Abbiamo infatti avuto un governo Monti, con il voto di Berlusconi, poi uno Letta, dapprima con Forza Italia e poi con gli alfaniani, stessa maggioranza per il governo Renzi e ora il Pd governa con Conte, autore di un salto carpiato che resterà negli annali della storia italiana. Ora per fermare un centro-destra che resta forte, si pensa ad una unione coi 5 Stelle e con un partito di Conte, che seguirebbe le orme dei suoi predecessori: Dini 3% circa, l’Asinello prodiano 7,7% alle europee, Monti 9% alle politiche.
Si discute su quanto possa valere una lista Conte. Ognuno fa le sue previsioni, che si spingono fino a prevedere un 20%, oppure un 30% comprendendo i 5 Stelle. Questa almeno è la tesi sostenuta da Bettini, autorevole consigliere politico di Zingaretti, il sostegno alla tesi di Franceschini è unicamente dettato dal cinismo di crede solo nel potere, in particolare personale. Non si può non vedere il paradosso di un Partito Democratico che rinuncia a puntare alla leadership politica, per sostenere una personalità tecnica, priva di cultura politica, a leader dei progressisti italiani, senza considerare che non solo sarebbe un concorrente capace di portar via non pochi consensi al Pd, ma che su questo inevitabilmente si basa il suo successo elettorale, visto che il centro-destra parte da uno zoccolo ormai stabilizzato del 40%, che solo il Renzi degli anni d’oro riuscì a mettere in crisi.
L’errore nell’ analisi di Goffredo Bettini consiste proprio nel non comprendere che Giuseppe Conte a destra non prenderebbe molto e questo perché quell’elettorato lo considera un traditore che ha riportato la sinistra al governo, dopo una debacle elettorale, quindi ciò che gli attribuiscono certi sondaggi verrebbe quasi tutto dal Partito democratico e dai Cinquestelle.
È pur vero che molti dirigenti e parecchi elettori del Partito democratico, stante una mutazione genetica per cui il potere val sempre bene una messa, considerano Giuseppe Conte uno dei loro. È un clamoroso errore, perché il contismo, ammesso che qualcuno abbia capito di cosa si tratti, ha ben poco di progressista.
Il suo eventuale partito sarebbe piuttosto il riferimento di nuovi e vecchi notabilati, da Rotondi a Tabacci, con una spruzzata di tecnocrazia statalista e parassitaria, un soggetto imperniato sul voto del sud, debole nelle zone più industrializzate, una via di mezzo tra il trasformismo di Depretis e il centralismo di Antonio Salandra, foggiano anch’egli.
In che cosa una simile formazione possa aiutare la sinistra a rifondarsi non è davvero facile da capire. All’occhio dell’osservatore esterno sembra piuttosto la certificazione di uno smarrimento totale, di un partito che ha la bussola bloccata solo sul polo del potere.
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