Un Paese muore se non ama conservare

Marcello Veneziani

Venezia, Taranto, Alitalia. Un paese vecchio e malato assediato dal cielo, dal mare e dalla terra, senza strategie difensive né protezione. Provate ad allontanarvi per un momento dai singoli guai citati e guardateli da più lontano, nel loro insieme. Un paese morente, incapace di reagire, con una storia ormai lunga d’incapacità e corruzione, malgoverno e malaffare alle spalle, una finzione di governo di figuranti. Ero bambino quando lessi sul settimanale dei miei genitori, La Domenica del Corriere, una stanza di Indro Montanelli che denunciava la morte di Venezia, sommersa dall’acqua e dall’incuria. È passato oltre mezzo secolo da allora e vedo le immagini di San Marco passata da Basilica a sommergibile. Ero ragazzo e leggevo dei deficit pazzeschi di Alitalia, gli stipendi assurdi e intoccabili per via dei sindacati, gli sprechi e le liquidazioni sontuose di chi aveva affossato l’azienda. Avevo il fazzoletto al naso quando passavo decenni fa dal quartiere Tamburi a Taranto, dove dominava l’Acciaieria coi suoi altiforni minacciosi; ma era la più grande d’Europa, dicevano, era un’azienda strategica per l’Italia e per il sud, dava lavoro a migliaia di persone.

Sono trascorsi gli anni, i decenni, e vedi che nessuno di quei guai è stato risolto, ma tutto sembra aggravato, sul punto di finire. E vi risparmio il quadro generale, le ottocento aziende che hanno lasciato l’Italia, l’orrendo spettacolo di morte degli ulivi nel Salento, un paesaggio doloroso da inferno dantesco, da Pier delle Vigne; o la scomparsa degli aranceti in Sicilia. Il poeta Andrea Zanzotto sospirava: “dai campi di sterminio siamo arrivati allo sterminio dei campi”. Un bel paesaggio una volta distrutto non torna più: ma quel paesaggio non era solo un capolavoro d’arte e natura, ma era anche una risorsa primaria, campo di lavoro per faticatori e di produzione…

Non ripeterò i nomi dei colpevoli di ieri e degli incapaci di oggi, non la butterò sul penale e nemmeno lo userò come argomento politico pro o contro qualcuno. Anche perché le colpe si spalmano lungo i decenni e i partiti, in un arco penoso e largo che comprende quasi tutte le forze che sono state al governo, seppur con diverso grado di responsabilità. Diciamo che un passato così oneroso, in cui sono coinvolti i fallimenti della prima e della seconda repubblica, non meritava le comiche finali di un governo senza conducente, con un gagà che usa solo la perifrastica – stiamo per fare – sapendo che non sarà in grado di fare un tubo.

Proviamo a innalzarci di un piano, lasciamo da parte gli scatenati insulti della gente, la gogna e la caccia ai complici del mare, dei nubifragi, dei batteri, dei veleni. E poniamoci una questione grande, alta, radicale. Ma come pensate che si possa salvare un paese che odia e disprezza tutto quello che viene dal passato, la tradizione come l’industria, la civiltà, le sue maniere come i grandi insediamenti? Non siamo capaci non dico di tutelare il patrimonio artistico e urbano che viene dai secoli andati ma nemmeno di gestire il passaggio dalla “civiltà industriale” alla civiltà post-industriale.

Non ci meritiamo l’Italia, e non solo nelle sue bellezze naturali, storiche, d’arte e civiltà, ma siamo incapaci di ereditare perfino le imprese che ci resero una delle più grandi potenze industriali del mondo.

Si può pensare un Paese come l’Italia che è un nobile uccello dalle piume di cristallo, fragile e splendente, senza l’amore per la sua conservazione? Ecco la parola chiave, conservare. La lotta politica, culturale, civile del nostro paese viene combattuta a botte di cambiamento, rottamazione, annunci di svolte e palingenesi, ripudi di tutto ciò che già c’era. Conservatore è un’ingiuria. Ma non ci vorrebbe qualcuno che prendesse sulle proprie spalle la croce del Paese che ci è stato lasciato dai padri e dagli avi, e proclamasse l’amore per conservare l’Italia, per preservarla? Arrivo a dire che sarebbe già un compito gigantesco se qualcuno promettesse non di cambiare e rinnovare l’Italia ma già solo di conservarla, tutelarla e restaurarla, come si conviene alla superpotenza mondiale dei beni artistici e culturali. Abbiamo tutti in modo diverso amato le rivoluzioni e l’ebbrezza di radicali novità. Ma se oggi la priorità delle priorità fosse quella di salvare il salvabile, conservare e proteggere quel che ricevemmo?

Il partito più proibito in Italia è da tempo il conservatore. E invece oggi gioverebbe all’Italia e agli italiani un movimento conservatore, una sensibilità conservatrice, che si traducesse in opere e azioni, non in rimpianti e lamentazioni. Se vuoi conservare il paese devi provare la gioia delle cose durevoli, devi amare la tradizione e le sue eredità, devi amare una patria e non scioglierla nel globale, devi innalzare argini e barriere e non godere dei muri crollati e dei confini violati; devi capire che un paese così fu fatto nei secoli da generazioni che amarono la propria civiltà, la propria religione, le famiglie e le città con le loro cinta murarie, e così trasmisero una cospicua eredità.

La parola conservatore è così rara e infame che si pensa subito ai conservatori musicali. E invece no, si tratta di cultura conservatrice, di azione conservatrice, di amore per la conservazione. Noi oggi ci troviamo, come più di mille anni fa, tra le rovine di un mondo antico, e il nostro compito somiglia a quello degli amanuensi che ricopiavano le opere classiche e salvaguardavano i tesori del passato. Ah, se almeno ci fosse in Italia una forza conservatrice preoccupata di mettere in salvo un paese attaccato dal cielo, dalla terra e dal mare…

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