Strategia dell’ibernazione. Il governo sembra essersi convinto che l’unica cosa da fare con la crisi è aspettare che passi

Francesco Cundari

Blocco dei licenziamenti, sovvenzioni a pioggia, proroga di tutto il prorogabile e rinvio di tutto il resto, dalla legge elettorale che si farà forse dopo il referendum ai decreti sicurezza da cambiare dopo l’estate

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Ricordo un piccolo dibattito romano di qualche anno fa in cui un professore espresse la singolare teoria secondo cui per risolvere il problema dell’insicurezza, stante il calo dei reati attestato dalle statistiche e dunque l’origine psicologica della questione (la famosa «sicurezza percepita»), il governo non avrebbe dovuto fare altro che riempire di tranquillanti gli acquedotti.

Allora l’idea mi parve poco convincente. Mai avrei pensato che una simile filosofia sarebbe diventata di fatto il cuore della strategia nazionale per rispondere alla crisi del coronavirus.

Può darsi che la strada del blocco dei licenziamenti e delle sovvenzioni a pioggia, del bonus monopattini e del bonus baby sitter, del bonus nonni e del bonus ristoranti, sia l’unica possibile. Può darsi che il tentativo di tamponare ogni emergenza e scansare ogni scelta di fondo a forza di proroghe, rinvii, aiuti e aiutini si riveli azzeccata, o semplicemente la meno peggiore tra le molte cattive opzioni disponibili. Chi lo sa.

Può darsi che abbia ragione Carmelo Palma a scrivere che vietare i licenziamenti per salvare i posti di lavoro è come vietare i funerali per abolire la morte, ma può anche darsi che abbia invece ragione il governo a pensare che l’importante, adesso, sia evitare l’avvitarsi di crisi economica e crisi sociale; che ora si debba pensare soltanto a puntellare tutto ciò che è possibile puntellare, a buttare quanti più sacchi di sabbia possibile lungo gli argini e aspettare che passi la piena, e al resto si penserà poi.

Ma certo colpisce il modo in cui governo e maggioranza – ma anche la stampa, gli intellettuali, la società italiana nel suo complesso – sembrano avere deciso di affrontare la crisi: la strategia dell’ibernazione.

Se già a fine aprile, nel pieno dell’epidemia, avevo avuto l’impressione che dal famoso modello coreano a tre T (Testare, Tracciare, Trattare) fossimo passati al più antico modello italiano a tre P (Più avanti, Più o meno, Può darsi), con il passare dei mesi la sensazione è diventata certezza.

Come riapriranno le scuole? Conte ripete che riapriranno, garantisce lui (lasciamo stare che anche questo tecnicamente non significa nulla, come se fosse una questione di buona volontà e non già di preparazione, cioè di scelte che andavano compiute ora e sono state invece sostanzialmente scaricate su dirigenti e insegnanti di ogni singolo istituto, come ha spiegato qui nel dettaglio Samuele Gangi), ma insomma, la verità è che non lo sa nessuno, perché non c’è nessuna strategia, né sulla scuola né su nient’altro.

Dalle concessioni balneari ai decreti sicurezza, dalla legge elettorale al Mes, l’unico criterio seguito è quello della conservazione dello status quo, che prevede solo due risposte a qualunque questione si presenti: la proroga o il rinvio.

Siccome, a quanto dicono nel governo, siamo in piena «emergenza sbarchi», l’intervento sui decreti sicurezza è stato rinviato a dopo l’estate, che è un po’ come annunciare il rinvio del pranzo a dopo la digestione: poco funzionale, perlomeno (anche volendo tralasciare l’antipatica considerazione che non c’è nessuna emergenza oggi ed è assai dubbio che si cambi davvero qualcosa domani).

Siccome il taglio dei parlamentari senza una nuova legge elettorale proporzionale, a giudizio di fior di esponenti del Partito democratico, potrebbe mettere a rischio nientemeno che la democrazia, il varo della nuova legge elettorale arriverà – se va bene – dopo il referendum. In altre parole: prima ci buttiamo e poi discutiamo del paracadute.

Su Repubblica Michele Ainis, commentando questo mesto spettacolo, è ricorso a una citazione di Seneca: «Tra un rinvio e l’altro la vita se ne va». Ma forse sarebbe stato ancora più calzante il seguito della stessa epistola: «Gran parte della vita se ne va mentre facciamo qualcosa di male, massima parte mentre non facciamo niente, tutta la vita mentre facciamo qualcos’altro» (sì, la citazione di John Lennon che vi piace tanto è una versione ridotta di Seneca).

Persino di fronte alla diffusione dello smart working, probabilmente il cambiamento più rilevante, almeno potenzialmente, che abbiamo visto in questi mesi nell’organizzazione dei tempi di vita e di lavoro, ha suscitato come prima reazione la proposta di limitarlo per non far fallire le rosticcerie.

Per quanto si possa avere in antipatia la retorica delle crisi che sono opportunità e non vanno sprecate, fa una certa impressione la rapidità con cui siamo passati – tutti quanti – dal discutere di come la pandemia avrebbe cambiato tutto e nulla sarebbe stato più come prima alla totale rimozione del problema.

All’idea cioè che tutto quello che c’è da fare sia semplicemente trattenere il respiro e aspettare che passi. Aspettare che arrivino i soldi dall’Europa. Aspettare che arrivi la ripresa (trainata magari dai monopattini, chissà). O forse solo aspettare che arrivino sondaggi migliori.

È chiaro che data l’eccezionalità della situazione, lo shock globale, simmetrico e senza precedenti che ha colpito il mondo intero, nessuno può dare lezioni o mostrare certezze. Tutti i paesi arrancano tra esitazioni e contraddizioni. Il casino italiano sui treni e sui trasporti in generale è in fondo poca cosa se paragonato alla leggerezza omicida sfoggiata dai leader di altri paesi.

E poi, lo sappiamo, gran parte della stampa italiana ha testimoniato che all’arrivo di Giuseppe Conte, sul ponte di Genova appena ricostruito, la pioggia è svanita ed è spuntato l’arcobaleno.

Da Linkiesta

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