Per una volta proviamo ad uscire dal
commentare un dibattito politico ormai ridotto ai social, non solo in forma semplificata,
ma pure privo di veri contenuti, per affidarci alle riflessioni del sociologo
Luca Ricolfi, nel suo ultimo libro” La società signorile di massa”. L’Italia
di oggi, è un posto dove si produce poco ma si consuma molto.
Un posto dove i cittadini che non lavorano hanno superato ampiamente il numero
di quelli che lavorano, dove larga parte della popolazione ha accesso a consumi
opulenti e dove allo stesso tempo la produttività è ferma da vent’anni. La
società signorile di massa si regge su tre pilastri.
Il primo è la ricchezza accumulata dalle generazioni dei nonni e dei padri.
Le condizioni fondamentali che nel secondo dopoguerra hanno permesso di
accumulare ricchezza sono essenzialmente tre.
La prima è la disponibilità della popolazione a fare sacrifici in vista di
benefici futuri, un fattore che è venuto meno già verso la fine degli anni ‘70.
La seconda è la contenuta pressione fiscale, di cui abbiamo smesso
definitivamente di beneficiare dalla metà degli anni ’80.
La terza è il cocktail di svalutazioni competitive e indebitamento pubblico,
che ha drogato la crescita economica nel ventennio 1972-1992, fattore che è
venuto meno con gli accordi di Maastricht (1992) e l’ingresso nell’euro.
Il Secondo pilastro su cui regge la società signorile di massa è la
distruzione della scuola, che in sostanza produce giovani totalmente
impreparati al lavoro e in particolare ai nuovi lavori, ma pure a quelli
antichi, come il lavoro nelle officine e nelle botteghe artigiane.
Abbiamo commesso due errori: uno antico e mai corretto, l’altro moderno e
orgogliosamente rivendicato. L’errore antico è la svalutazione della cultura
scientifica e del sapere pratico, che è conseguenza della nostra mentalità e
della nostra cultura, che è sempre rimasta fondamentalmente anti-industriale e
anti-moderna.
L’errore più recente, invece, è la scelta di tutti – politici, insegnanti,
genitori – di abbassare gli standard dell’istruzione e soprattutto, di
abbassare l’asticella della sufficienza. Ciò ha comportato la conseguenza di
svalutare e disincentivare la formazione professionale, di favorire gli studi
più facili o ritenuti tale, a scapito delle materie scientifiche e infine di rilasciare
titoli di studio fasulli, illudendo i giovani di essere pronti per mestieri che
la maggior parte di loro non era preparato a svolgere. Ciò ha tolto ai ceti
subalterni la possibilità di usufruire dell’ascensore sociale.
Vi è poi da dire, in modo politicamente scorretto, che l’immigrazione
incontrollata ha favorito la formazione di un mercato del lavoro in cui regnano
forme “para-schiavistiche, perdita di diritti e abbassamento dei salari. In un
mercato del lavoro che abbassa la sua qualità e i suoi salari, problema che si
somma al prevalere dell’economia relazionale su quella meritocratica, è
evidente che i giovani più intraprendenti prendono la via dell’estero.
I ceti popolari non amano gli immigrati perché li vedono – realisticamente –
come concorrenti nell’accesso ai servizi pubblici, come rivali nella conquista
dei pochi posti di lavoro disponibili con conseguente dumping salariale,
come minacce alla sicurezza nelle periferie e nei quartieri degradati.
I ricchi e i ceti medi, invece, li vedono un po’ cinicamente come candidati
ideali ad occupare le posizioni più umili nella scala sociale: braccianti,
muratori, magazzinieri, facchini, badanti, camerieri, lavapiatti. Troppo spesso
si dimentica che le differenze fra l’approccio ai problemi dell’immigrazione
tipico dei “signori” e quello delle persone umili sono normalissime
differenze di interessi materiali, e non differenze di cultura o di
umanità.
Chi è sotto non vuole concorrenti, chi è sopra è ben felice di disporre di
servizi a basso costo.
Questo punto viene quasi sempre dimenticato dai mass media e dagli studiosi,
che preferiscono pensare i ceti popolari come rozzi e sobillati dalla
propaganda, e i “ceti medi riflessivi” come portatori di una superiore
razionalità e coscienza morale.
Nella società signorile di massa i giovani – diciamo i trenta, quarantenni –
sono sia privilegiati che vittime.
Privilegiati perché di certo non rischiano la vita: hanno un tetto, cibo,
affetto genitoriale, meno spesso un lavoro.
In fondo però più che vivere, sopravvivono.
Si può andare avanti così nei ceti alti e medio-alti, non si può nei ceti
medio-bassi.
Tutto dipende da quanto è grande il patrimonio familiare, e quanto lunga è
l’aspettativa di vita dei genitori.
Ma la conseguenza principale della dilazione delle scelte occupazionali, per
cui si posticipa di 10 o 20 anni l’ingresso definitivo nel mercato del lavoro,
è di tipo pensionistico: chi fino a 40 anni lavoricchia, e solo dopo i 50 ha un
vero lavoro, inevitabilmente andrà in pensione con un reddito molto basso. Avanti
così, come direbbe Keynes: “nel lungo periodo saremo tutti morti”.
Il declino dell’Italia è sufficientemente lento da permetterci di
autoingannarci, pensando che i problemi verranno al pettine solo “nel lungo
periodo”, ovvero quando non ci saremo più. Il guaio è che, fra 20, 30
o 40 anni i nostri figli e nipoti ci saranno eccome: sono loro che pagheranno
il prezzo del nostro ostinato rifiuto di riconoscere il piano inclinato
su cui stiamo scivolando, non senza problemi come l’aumento del consumo
patologico di alcol e droghe, del gioco d’azzardo, legale e illegale e di
psicofarmaci, visto che sappiamo da molto che il denaro da solo non dà la
felicità.
Una conseguenza inevitabile in un Paese che consuma ma non produce è la
decrescita, ma non felice, visto che il “partito del Pil”, che vorrebbe far
ripartire la crescita, è forte nel Paese ma non nei palazzi della politica,
dove a prevalere sono le spinte assistenziali e l’aumento dell’indebitamento.
E’ evidente che il quadro dipinto da Ricolfi non è allegro, ma nessuno può
negare che sia veritiero, né bastano le ricette predicate da tutti di abbassare
le tasse. Il primo problema per i produttori di Pil non sono le tasse, pure
troppo alte, ma la creazione di un ambiente favorevole all’impresa, attraverso
una riforma radicale della giustizia, della burocrazia, del fisco, che portino
ad un sistema semplificato e digitalizzato. Solo così si riducono le
inefficienze e la corruzione, ormai endemica e direi “normale”, come altrimenti
spiegare che un Prefetto possa accettare mazzette da 700 euro? Un delirio. Poi
bisogna investire nella formazione mettendola al servizio dell’economia,
ripristinando una cultura del lavoro, mentre riforme come l’attuale reddito di
cittadinanza vanno in direzione opposta. Prima del green new deal predicato dal
premier Conte, serve un grande new deal morale e culturale che rimetta al
centro il lavoro, ma un lavoro che liberi l’uomo dalla povertà, non che ve lo
mantenga.
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