Se Io Stato ritorna padrone – Alberto Mingardi

il_fullxfull.150733360 In Italia non si può parlare di «ritorno dello Stato» perché lo Stato non se n’è mai andato

Il nuovo Def prevede entrate da privatizzazioni per lo 0,5% del Pil nel 2016 e per lo 0,3% nel 2017 e 2018. È davvero poca cosa, tenendo conto che il primo ministro aveva annunciato nuove privatizzazioni per «tranquillizzare» i partner europei. Per intenderci, nel Def 2013 si parlava di dismissioni per un punto di Pil all’anno, nel quinquennio 2013-2017.

Promesse a parte, oggi assistiamo a un trend opposto. È in atto cioè una ripubblicizzazione dell’economia italiana.

Immerso in una crisi fiscale permanente, negli Anni Novanta il nostro Paese ha molto privatizzato. Per sessant’anni, siamo stati un’economia «mista» fortemente sbilanciata verso la componente pubblica: l’Istituto per la Ricostruzione Industriale era nato nel 1933 come strumento emergenziale ma, si sa, in Italia nulla è stabile come il provvisorio.

Ci indussero a privatizzare il dissesto della finanza pubblica e Tangentopoli. Nel discorso con cui lasciò la presidenza del Consiglio, nel 1993, Giuliano Amato evidenziò come «il regime fondato su partiti che acquisiscono consenso di massa attraverso l’uso dell’istituzione pubblica» venisse meno assieme al «regime economico fondato sull’impresa pubblica». Due invenzioni, l’una e l’altra, del periodo fascista: indebolite dalla tempesta finanziaria e dall’ondata «moralizzatrice» seguita alle inchieste di Milano.

Che cosa abbiamo venduto, negli Anni Novanta? Abbiamo privatizzato la telefonia, le autostrade, la siderurgia, le assicurazioni di Stato; abbiamo ceduto quote delle imprese elettriche e del gas; abbiamo denazionalizzato le banche. In un modo un po’ ambiguo: costituendo dei centauri, le fondazioni di origine bancaria. Ma per la prima volta in settant’anni lo Stato usciva dal mondo del credito: lasciava, cioè, al privato decidere chi finanziare e chi no.

Oggi lo Stato è di nuovo proprietario della seconda assicurazione italiana: non si chiama più Ina, ma Poste Vita.

È di questi giorni la notizia che, su forte sollecitazione del governo, Enel farà la propria rete telefonica in fibra. Le aziende municipalizzate che fanno concorrenza a Enel in alcune delle principali città si sono subito fatte avanti, disponibili a posare fibra ottica anch’esse.

Nelle aree «a fallimento di mercato» (dove, cioè, non c’è domanda che possa sostenere gli investimenti), il governo ha scelto di costruire una rete pubblica, che sarà di proprietà di Infratel. Non siamo ancora arrivati ad avere un operatore telefonico statale: ma è alle viste.

Ieri il Tesoro ha tenuto a battesimo un veicolo finanziario di 5/7 miliardi di euro, al quale con le fondazioni parteciperà la Cdp, per garantire l’aumento di capitale di Veneto Banca e Banca popolare di Vicenza, acquisendo gli eventuali diritti inoptati. Originariamente era Unicredit che doveva garantire la ricapitalizzazione della Vicenza per 1,75 miliardi: la banca milanese pareva però pronta a sfilarsi, non riuscendo a collocare l’istituto vicentino sui mercati internazionali. Di qui l’ipotesi di uno strumento «misto», così da dribblare l’accusa di aiuti di Stato.

Che c’è di male in tutto questo? Si chiederà il lettore. Non rischiamo di fare del «privato» un feticcio?

Oggi abbiamo tariffe telefoniche basse per la media europea e un buon grado di concorrenza, anche e soprattutto perché l’incumbent telefonico è uscito dal perimetro pubblico e del pubblico ha perso la protezione. Un grande operatore statale è visto, naturalmente, dai regolatori, con un occhio di riguardo: il che non va necessariamente a vantaggio dei consumatori.
È difficile sostenere che in campo assicurativo ci siano «fallimenti di mercato»: che o se ne occupa lo Stato oppure non si trova chi possa fare, bene, quel mestiere.

Il credito è la benzina dell’economia. Se si decide chi dev’essere finanziato e chi no sulla base di criteri «politici», il risultato più probabile è che non venga sostenuto chi ha progetti e capacità di realizzarli: ma gli amici degli amici. L’immenso problema dei crediti incagliati riflette in una certa misura il fatto che troppo spesso si sono privilegiate le relazioni rispetto al merito. Divellere la cultura del «salotto buono» è già difficile con le banche in mano ad azionisti interessati a far profitto: sarà impossibile, se la politica torna ad influenzare l’allocazione del credito.

In Italia non si può parlare di «ritorno dello Stato» perché lo Stato non se n’è mai andato, visto che la spesa pubblica sfiora la metà del Pil. Parliamo semmai di ritorno delle partecipazioni statali. Che stavolta non hanno nemmeno un ministero di riferimento, e operano attraverso strumenti metà pubblici metà privati, ambigui e sottratti anche alle logiche della responsabilità politica. Il massimo della discrezionalità, il minimo della certezza del diritto.

Da:IBL

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