Di Samuele Maccolini
È successo tutto in sordina. Anno dopo anno, giorno dopo giorno, è cresciuto nella nostra società un sentimento sconosciuto. Il rancore ha iniziato a insediarsi dietro i rapporti umani, accompagnato dall’invidia per il prossimo. È “la società del rancore” quella che viene fuori nel rapporto Censis-Conad. Tra diseguaglianze e paura di scendere nella scala sociale, il tessuto sociale italiano si è ingrigito,frammentato e chiuso, rinunciando a consumi e investimenti.
Il risentimento cresce in un ambiente in cui l’ingiustizia sociale è diffusa. La crisi ha messo in ginocchio in tanti; e a dieci anni dal fallimento della Lehman Brothers lo stallo economico è ancora una realtà. Sembrava che la via della crescita, seppur lenta, fosse stata imboccata. Invece i dati sono tutt’altro che positivi. Giusto qualche settimana fa l’Istat ci ha spiegato che il Paese ha smesso di carburare dopo tre anni di crescita a rilento. L’economia non riprende a ingranare, i soldi per arrivare a fine mese sono sempre meno, il precariato è dilagante soprattutto tra i giovani, e per la prima volta nella storia d’Italia la quota di popolazione che vive in condizione di povertà assoluta tocca livelli preoccupanti.
Il rancore nasce dal blocco verso l’alto dell’ascensore sociale e dalla percezione che non ci sia un futuro migliore ad aspettare noi e i nostri figli. Esiste una paura latente di precipitare verso il basso, di non riuscire nella vita. Ciò crea una mentalità che tende a rinchiuderci in una roccaforte isolata dal mondo, con la conseguenza che si vengono a creare distanze nei confronti degli altri, e ancora di più del diverso, del non conforme ai canoni sociali vigenti. In poche parole, gli ultimi, i poveri e gli stranieri in difficoltà.
Alla crisi economica, trauma ancora irrisolto, si accompagna una crisi immateriale innescata dalla fine dell’immaginario collettivo italiano per come lo abbiamo conosciuto in più di mezzo secolo di storia repubblicana. Le basi materiali e psicologiche della nostra vita collettiva sono state alterate; ciò che resta è un sotto fondo emotivo che diventa facile ostaggio di forme di propaganda politica spregiudicata, rese ancor più efficaci nel mondo digitale. Non dobbiamo quindi stupirci se la società del rancore abbia un immaginario collettivo regressivo e chiuso, proiezione di paure personali e intime a lungo ritenute inconfessabili,che ora si impongono come uniche degne di essere ascoltate in quanto voce critica del popolo sofferente.
La crisi del 2008, dunque, è stata il grande trauma: la società e i cittadini non sono riusciti a gestire lo stress post traumatico. Sono avvenuti dei grandi mutamenti nel rapporto con gli altri, pratiche individuali che vivono nella routine e che giorno dopo giorno, se analizzate, ci restituiscono il livello di malessere di un’intera nazione.
Pensiamo alle aspettative delle persone per la propria condizione economica: nel 1998 il 27,7% degli italiani era convinto che la propria condizione economica sarebbe migliorata e il 23% che sarebbe migliorata quella ingenerale. Nel 2008, anno della crisi, era il 19,6% a pensare che la propria condizione sarebbe migliorata e il 20,8% a pensare che sarebbe migliorata quella degli altri. Infine, nel 2018 è il 28% a dire che la propria condizione migliorerà, mentre il 35% pensa che migliorerà, in generale, quella degli altri. Assistiamo dunque a un grande cambiamento di prospettiva: siamo passati da un periodo pre-crisi in cui eravamo convinti che le cose sarebbero andate meglio per noi che per gli altri, a un periodo post-crisi in cui siamo convinti che le cose andranno di gran lunga meglio per gli altri piuttosto che per noi. Cedono dunque le aspettative e la speranza, al loro posto cresce l’invidia verso l’altro che è, solo virtualmente, più fortunato e con più possibilità di riuscire nella vita.
In parallelo la percezione di avere le stesse opportunità degli altri per avanzare nella vita è bassa: è convinto di avere pari opportunità rispetto alle altre persone il 45% degli italiani, mentre è il 60% in Francia, il 70% in Germania, e il 52% in Spagna – la media dei paesi dell’Ue e il 58%. Quando non c’è crescita è normale pensare che gli altri abbiano maggiori opportunità: l’invidia è l’anticamera del rancore.
Un altro aspetto importante, legato all’ascensore sociale bloccato, è la percezione che occorra difendersi da incertezze e paure. Ci sentiamo sempre più soli e in ogni ambito occorre difendersi mettendosi nelle condizioni di affrontare situazioni impreviste. A livello collettivo ciò si manifesta nel sentimento chele cose stiano andando nella direzione sbagliata. Di questo è convinto il 60%degli italiani e solo in Grecia e Spagna si registrano quote più elevate. Dal 2007 la quota di coloro che considerano sbagliato il modo in cui stanno andandole cose è cresciuto di otto punti percentuali.
È caduta anche la fiducia nel futuro: il 39% degli italiani è sfiduciato nei confronti di ciò che verrà. La percezione che le cose vadano male si accompagna a una confusione e a un’incertezza allarmanti, che lasciano il cittadino in balia di angoscia e stress. Ben il 35% degli italiani dichiara di non capire ciò che gli sta accadendo attorno e, a parte la Spagna, questa percezione di realtà opaca connota gli italiani in misura più marcata rispetto al resto delle nazioni europee.
Su tutti vaga un sentimento di incertezza che annacqua le relazioni e crea sfiducia nel futuro. Allo stesso tempo l’invidia non permette di creare empatia e ricucire quel tessuto sociale ormai liso da anni di fatiche e malumori. Scatta così l’ora del rancore mentre l’ascensore sociale resta bloccato su un “piano” critico per il futuro dell’Italia.
Da Linkiesta