Come se fosse un gioco, dopo mesi drammatici segnati dall’epidemia, dai morti, dalle conferenze notturne del Premier, dalla giusta sospensione della democrazia, a cominciare dalle Elezioni regionali, siamo tornati al punto di partenza. Alla confusione, alla paralisi decisionale, ai decreti annunciati e rinviati e quando pubblicati gravati da norme borboniche, linguaggi incomprensibili da parte di una burocrazia arraffona e arruffona. la verità è che il lock down, inteso come emergenza, stato di eccezione, sentimento collettivo, ha tenuto assieme il governo, dandogli un “programma”, che non ha mai avuto, imposto dagli eventi.
Programma e identità che non c’erano prima, quando il vero collante era solo la paura del voto, e non ci sono ora che cala la paura del virus e cresce quella della devastante crisi economica. Il momento delle decisioni forti coincide con il riemergere delle debolezze strutturali del paese, acuite dall’emergenza. Stato, Regioni, Comuni vanno per i fatti loro, in una cacofonia insopportabile. E’ tornato il partito della spesa a pioggia: bonus, mance, redditi per tutti, mentre la verdura e la frutta marciscono nei campi. Si è tentato di garantire tutti: i dipendenti pubblici che lo erano già e i privati, promettendo che nessuno avrebbe perso nulla. Ma fino a quando? Si parla, dispiace dirlo, solo di diritti, mai di doveri, mentre il già indebolito ceto medio e le piccole medie imprese si preparano alla mattanza. Si è parlato a sproposito di mantenere la distanza sociale, anziché parlare di distanza fisica e con tragica ironia si può dire che le distanze sociali sono state mantenute: quelle tra ricchi e poveri, tra garantiti e non. Saltato il precario equilibrio sociale precedente, non vi è un’ idea di come costruirne uno nuovo. Solo una rassicurante, martellante campagna di rassicurazione compassionevole: vinceremo, passerà, tutto tornerà come prima. In realtà il prodotto di mille consulenti è; state distanti, portate le mascherine, sulle quali il balletto di Arcuri è stato indecente, lavatevi le mani. Per il resto la fotografia è quella di prima, un Paese pieno di debiti, distrutto dalla burocrazia e con una politica che chiacchiera se il governo “cade, non cade”, “che succede se cade”, resa stonata dal contesto di un paese più povero e disperato, dopo settimane di retorica sul “nulla sarà come prima, perché il virus ha cambiato tutto, ma col dubbio che sarà peggio di prima. Scopriremo tra breve che i nuovi protocolli e il considerare il Covid una malattia professionale, in breve, un infortunio sul lavoro, saranno una zavorra per tutto il Paese che vuole lavorare, dalle imprese, alle professioni, fino al terzo settore e alle società sportive. Il segno che, come dice Calenda, chi ci governa non sa gestire un bar, figuriamoci un’ emergenza.
Adesso che abbiamo trentamila morti, sono riaperte le fabbriche, ma ancora non si capisce quando e come riapriranno bar e ristoranti, il decreto aprile è diventato maggio e la liquidità s’ inceppa nei grovigli burocratici dei decreti, siamo tornati agli scontri sulla giustizia mai riformata, al tema dei migranti mai seriamente affrontato, in attesa di nuove ondate estive. Il dibattito si è fermato alle parole, non uno straccio di idea, men che meno una riforma. Il tutto nell’afasia del Pd, per il quale il governare è tutto, e nei deliri dei 5 Stelle. Ciò che prima era sbagliato, ora è normale. Nessuno si scandalizza se la Alan Kurdi sia stata sequestrata al largo di Palermo, come avveniva col Conte 1, quando al Viminale c’era Salvini e che dire quando il Pm Di Matteo, l’icona del processo sulla “trattativa Stato Mafia”, l’uomo che ha processato la seconda Repubblica perché fondata su un patto scellerato, il fondatore morale della Repubblica pentastellata, denuncia presunte pressioni che avrebbero impedito la sua nomina al Dap, addirittura minaccia di “difendersi col coltello tra i denti”? il ministro Bonafede sostiene che sono tutte falsità, poi annuncia un decreto per far tornare i boss in carcere, senza che nessuno si ponga elementari domande sul come mai la rivolta nelle carceri si è improvvisamente sedata con la scarcerazione dei boss. O perché sia stato deciso il cambio ai vertici del Dap, di certo qualcosa è accaduto, ma cosa, non è dato sapere.
In un clima di grande rimozione, la ripartenza è segnata dall’antico vizio che consiste nell’andare avanti senza una visione, ma anche senza alternativa, come se tutti i leader in campo fossero spettatori di un dramma che si consuma altrove, ognuno col suo piccolo cabotaggio. Almeno finché il collasso non imporrà soluzioni a tutti. Anche lo spiffero quirinalizio, secondo cui oltre questo governo c’è solo il voto, perché è difficile immaginare altre maggioranze in questo Parlamento, rivela un’ impasse di fondo, nella misura in cui è impensabile la coda ai seggi a un metro di distanza e una campagna elettorale senza assembramenti. Però anche se non si può votare, resta una domanda che richiederà una risposta. Può essere questo il governo che ricostruisce l’Italia, senza sapere se vuole un Paese moderno o la solita melassa burocratico- assistenziale?
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