Alla prova dei fatti, la Germania si dimostra più “sociale” di quegli stessi Paesi che la accusano di voler distruggere il modello sociale europeo
La propaganda è un modo come un altro di raccontare una storia. In questi giorni, va per la maggiore la favola dell’Europa divisa. Da una parte Paesi che si sentono «solidali» gli uni con gli altri, fedeli allo spirito dei «padri fondatori». Dall’altra, Stati che hanno dimenticato il disegno originario dell’Unione europea e sono regrediti verso l’egoismo nazionale facendosi ipnotizzare dall’ormai egemone potenza tedesca. In gioco ci sarebbe nientemeno che la sopravvivenza del «modello sociale europeo»: Stati ad elevata tassazione, elevata spesa pubblica, elevata regolamentazione.
E’ una favola appassionante, del genere in cui i buoni sono veramente buoni e i cattivi sono veramente cattivi. Appassionante, ma poco verosimile. Prendiamo il capofila della cospirazione neoliberista che più vuole minare il modello sociale europeo: la Germania. La Repubblica federale tedesca è talmente ostile al modello sociale europeo che lo incarna alla perfezione. In Germania l’aliquota più alta dell’imposta sul reddito delle persone fisiche è al 47,5%. Adam Smith non avrebbe approvato, Ronald Reagan neppure. La spesa pubblica è il 45% del Pil. Meno che in Grecia (51%), meno che in Italia (49%), meno che in Francia (56%), ma pur sempre 45 euro ogni 100 di reddito nazionale. E’ vero che il reddito pro capite dei tedeschi negli ultimi anni è cresciuto di più del nostro.
Per la stessa ragione per cui una persona più ricca può permettersi di spendere una quota maggiore del proprio reddito in viaggi, vacanze o spettacoli teatrali senza tirare la cinghia, così un Paese più ricco può permettersi una spesa pubblica maggiore. E tuttavia persino per il socialista più incallito è complicato sostenere che il livello ottimo di spesa pubblica sia «il più alto possibile», indipendentemente da quel che si compra con quella spesa pubblica.
Guardiamo alla spesa «sociale»: pensioni, sanità e altre forme di «welfare». La spesa «sociale» tedesca è più di un quarto del Pil: più di quanto non sia in Grecia. In Finlandia e Danimarca, entrambi Paesi fiancheggiatori dei tedeschi, la spesa sociale supera il 30% del Pil. Pur essendo un welfare state con tutti i crismi, la Germania è arrivata al pareggio di bilancio lo scorso anno. Era la prima volta in mezzo secolo, ma si è trattato di un passaggio necessario: dal 2016, vi saranno obbligati dalla Costituzione. «Costituzionalizzare» buone regole serve a creare certezza, anche per gli operatori economici.
La regola del bilancio in pareggio non elimina gli spazi della politica. Ci sarà sempre chi vuole che lo Stato faccia di più (aumenti le spese) e chi vuole che lo Stato faccia di meno (riduca le spese). Però, in questo modo, le spese di oggi devono essere finanziate dalle tasse di oggi. Senza obbligo del pareggio, gli Stati tendono ad aumentare le spese di oggi finanziandosi a debito, cioè aumentando le tasse di domani.
La ridistribuzione è sempre togliere agli uni per dare ad altri. Che gli uni e gli altri almeno si vedano in faccia. Secondo alcuni è meglio se questo non accade per niente: lasciare i conti da pagare ai nostri figli, meglio ancora ai figli dei cittadini di altri Paesi. I debiti delle socialdemocrazie più indebitate dovrebbero essere ripianati dai contribuenti delle socialdemocrazie meno indebitate. E’ un’idea talmente curiosa che alla fine si riesce a giustificarla soltanto agitando la minaccia di un crac finanziario di dimensioni globali (paga somaro tedesco, che ti conviene) o per l’appunto ricorrendo alle favole.
Il torto della terribile Germania è dimostrare (per un liberista, è un’ammissione dolorosa) che si può essere socialdemocratici anche senza scassare i bilanci pubblici. Molti socialdemocratici di casa nostra non sono convinti. A chi non scassa il bilancio pubblico rifiutano d’istinto un posto nell’Internazionale.
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