Ospedali poco attrezzati, mafia e aggressioni al personale: il Sud non è pronto per il coronavirus

Di Pietro Micarozzi


Il Sud Italia ha dovuto fronteggiare l’arrivo di numerose persone rientrate dalle regioni del nord dopo l’annuncio del decreto sulla zona rossa di sabato notte. Circa 9.000 sono arrivate in Puglia, 20 mila sono i rientri segnalati dal governatore siciliano Nello Musumeci; il presidente Vincenzo De Luca, ha fatto presente che, nel caso esplodesse il contagio, la regione Campania avrebbe a disposizione solo «320 posti in terapia intensiva» per un fabbisogno di «almeno 590 in più». Più dura, invece, la neo eletta presidente della Regione Calabria, Jole Santelli, che considera la propria «sanità al collasso», e non certo in grado di «reggere come in Lombardia».

In tutta la Calabria, infatti, si contano solo 107 posti di ricovero ordinario nelle rianimazioni di terapia intensiva. Un problema al quale si sovrappone quello della carenza di personale: a Cosenza 60 medici di famiglia sono stati posti in quarantena dopo aver avuto contatti, nei giorni recenti, con un informatore farmaceutico risultato positivo al coronavirus, lasciando così circa 70mila cittadini calabresi sprovvisti del medico di base cui fare riferimento.

«Noi non sappiamo che scenario si andrà a delineare nelle prossime settimane», spiega a Linkiesta Giuseppe Foti, direttore del dipartimento Medico Polispecialistico dell’Ospedale Bianchi-Melacrino-Morelli di Reggio Calabria. «La nostra struttura è pronta per ricevere ulteriori pazienti, anche se tutto dipende dai numeri con i quali ci dovremo rapportare. Abbiamo redatto un piano d’emergenza, ma davanti a un fenomeno come quello lombardo è chiaro che ci sarà una grande sofferenza».

Negli ultimi anni nel sud e nelle isole sono stati chiusi 42 piccoli centri ospedalieri, di cui 4 solo in Calabria. Questo, oltre ad aver generato un maggior carico di lavoro sulle strutture sanitarie rimaste aperte, non ha fatto in modo che venisse rimodulato l’assetto organizzativo di queste strutture, ma viceversa agli ospedali rimasti è stata imposta una riduzione dei posti letto (in Calabria si è passati da 4,47 posti letto ogni mille abitanti a 2,98).

Secondo l’ultimo Rapporto Svimez, in Italia la spesa sanitaria pro capite è di circa 1.800 euro, contro i 2.800 nella media Ue, i 3.000 euro in Francia e Danimarca e i 3.800 in Germania. Il motivo si deve proprio al divario interno al nostro Paese: circa 1.600 euro nel Mezzogiorno, 2.000 euro nel Centro-Nord. Sempre nel Mezzogiorno il 35,6 per cento delle famiglie vorrebbe ricevere aiuto ma solo il 12,5 per cento lo riceve, mentre per la qualità dei servizi sociali e sanitari, il Sud ha il più elevato tasso di emigrazione ospedaliera verso le regioni del Centro-Nord. E adesso che questo esodo non è più possibile, ma, anzi, si assiste a rientri di massa giornalieri, a emergere con forza sarà per l’appunto anche l’urgenza dei posti letto, in quanto la dotazione complessiva per 100.000 abitanti è di 791 nel Centro-Nord e 363 nel Mezzogiorno.

A rendere più fragile l’intero settore, si aggiunge anche l’ingerenza della criminalità organizzata. Dal 1991 al 2019, secondo i dati dall’associazione Avviso Pubblico, sono state sciolte due Asl e quattro aziende ospedaliere per infiltrazioni mafiose, due in Campania e due in Calabria. In particolare nel corso del 2019, l’Asp (Azienda Sanitaria Provinciale) di Catanzaro è stata sciolta per diciotto mesi e affidata a una commissione di gestione straordinaria alla luce di quanto emerso con l’inchiesta “Quinta Bolgia”. Il provvedimento è avvenuto solo sei mesi dopo lo scioglimento per mafia anche dell’azienda sanitaria di Reggio Calabria. Ben 126 arresti di camorra, invece, hanno segnato nell’anno passato la sanità Campania, molti dei quali hanno riguardato proprio l’ospedale San Giovanni Bosco di Napoli.

«La rete sanitaria del Sud è meno efficiente di quella lombarda, che non ha fatto tagli nel corso degli anni», dice Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici. «La soluzione da attuare per tamponare ed evitare che il contagio si ripeta anche nelle regioni meridionali è seguire le linee guida governative. Basandomi sulle strutture a disposizione e in termini di attrezzature e personale, è difficile immaginare cosa possa succedere al Sud se l’epidemia prendesse il sopravvento».
Il timore, quello degli addetti ai lavori, di non avere abbastanza forza da impiegare in “trincea” se il virus dovesse sfondare è dovuto anche ai buchi cui la sanità ha dovuto far fronte. Come nel caso della Sicilia, dove a metà 2019 una voragine da 153 milioni ha prodotto per cinque ospedali siciliani (Civico, Villa Sofia-Cervello, i Policlinici di Palermo e Catania e il Papardo di Messina) un piano di rientro molto severo fatto di tagli ed esuberi. Lo stesso riservato al sistema sanitario della Campania, commissariata per ben 12 anni e nuovamente di competenza regionale solo dallo scorso dicembre 2019, che oggi deve però fare i conti con una piaga altrettanto allarmante: le aggressioni nei confronti dei medici.

Nella giornata di lunedì, all’ospedale Cotugno di Napoli, un uomo, che presentava sintomi febbrili ed era in attesa di fare il tampone per il coronavirus, si è spazientito e ha dato in escandescenze sputando contro dottoressa e infermiere che cercavano di calmarlo. Il risultato è che i due sanitari dell’ospedale sono stati posti in quarantena e il locale dove è avvenuto l’episodio è stato evacuato e sottoposto a sanificazione.
Sono stati 1200 i casi di aggressione lo scorso anno, quasi 7 medici su 10 sono stati vittima di un paziente, e la concentrazione dei reati più alta si registra proprio nel Mezzogiorno: arriva infatti al 72% nel Sud e nelle Isole il numero di medici che denuncia aggressioni, e sale all’80% tra chi, di loro, lavora nei pronto soccorso. Solo a Napoli sono stati 105 gli episodi di violenza verso i medici nel 2019. Un numero destinato a salire in preda alla psicosi suscitata dal coronavirus che, come afferma a Linkiesta Mirko Claus, presidente di Federspecializzandi, «assieme a un sistema che per anni ha dovuto fare i conti con la mancanza di strumentazione e tecnologie adeguate, spinge anche i giovani medici, chiamati per l’emergenza in prima linea, a rivalutare l’oppurtunità tanto desiserata di indossare finalmente il camice bianco». Il che è tutto dire.

Da Linkiesta

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