Di Giulio Sapelli
Il 2020 sarà ricordato come l’anno della
decelerazione della globalizzazione e della crisi evidente di un mondo che non
riesce a riacquistare stabilità e a crescere economicamente per assenza di
leadership.
Al netto dell’emergenza coronavirus, si tratta di una
decelerazione, infatti, e non di un’improvvisa rottura delle interconnessioni
dell’economia internazionale. Decelerazione perché sono più di trent’anni che
il Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, non riesce a raggiungere un
accordo multilaterale. Le conferenze di Seattle del 1999 e di Cancun del 2003
si conclusero senza accordo. Proprio il secondo è l’anno decisivo, perché il
fallimento di quel summit disvelò i limiti strutturali della globalizzazione
dell’economia reale: l’accordo non si realizzò perché le 22 nazioni del “Sud
del Mondo” si opposero ai sussidi all’agricoltura distribuiti da Stati Uniti ed
Europa ai loro contadini e solo nel 2004, nei colloqui di Ginevra, le nazioni
del mondo del Nord, quello “industrializzato”, si impegnarono a diminuire i
sussidi agli agricoltori, mentre, come controparte, i Paesi in via di sviluppo
si impegnarono a diminuire le barriere tariffarie ai beni manifatturieri del
Nord del mondo.
Ben si evince dalla storia che l’unica globalizzazione che si è realizzata nel
pianeta è stata quella finanziaria.
La moneta simbolica creata dalle banche centrali e quella digitale originata
dalle banche universali sulle scommesse dei derivati è l’unica merce che si
sposta in tutto il mondo senza barriere e a costi di transazione tendenti allo
zero.
È questa discrasia tra super-globalizzazione finanziaria e semi-globalizzazione
manifatturiera che crea le crisi mondiali, e si somma con la deflazione
secolare indotta dalla politica economica europea fondata sul liberismo a bassa
intensità di investimenti pubblici e alta restrizione dei mercati interni e dei
profitti capitalistici, colpiti anch’essi dalla deflazione. La Cina ha aggiunto
a questo scenario una asimmetria imprevista, e che pareva sino a ieri
inarrestabile con la sua entrata nel Wto.
Ed ecco irrompere il coronavirus. Invero, se guardiamo a questo pericolo terribile
per la salute umana in questo inusitato contesto, esso può contenere in sé una
virtù. E questa virtù è l’umiltà: l’umiltà di riconoscere che la crescita
inarrestabile della globalizzazione finanziaria e della Cina – che a essa è
intimamente legata – possono entrambe subire una battuta d’arresto.
Evidentemente in questi ultimi vent’anni abbiamo letto troppo il “Manifesto” di
Marx ed Engels che magnificava le sorti progressive della borghesia
capitalistica, e abbiamo dimenticato il grande Gian Battista Vico con la sua
teoria dei cicli storici.
La Cina nel Millequattrocento giunse con la sua immensa armata sino in Africa,
come ci ha dimostrato Francois Xavier Fauvelle nel suo capolavoro archeologico
sull’Africa “medioevale”. Vi giunse grazie alle spedizioni dell’ammiraglio
Zheng He, eunuco imperiale della dinastia Ming, tra il 1435 e il 1443. E vi
sono tracce che confermano che tra i due Continenti i commerci fossero in
essere anche 700-800 anni prima. Ma la ritirata della Cina dall’Africa è ancor
oggi un mistero storiografico che ha appassionato grandi studiosi come Needham,
Granet, Witfogell senza risultato alcuno: il perché ciò avvenne rimane un
enigma.
E tuttavia allora come oggi le conseguenze geopolitiche saranno spettacolari,
se questa epidemia che affligge la Cina non si fermerà. Sarà allora inevitabile
una accelerazione del riflusso della globalizzazione finanziaria e un
consolidamento del commercio manifatturiero con le attuali regole bilaterali
come si sta facendo da più di trent’anni. L’accordo tra il Mercosur e quello
ben diverso con il Canada – da questo punto di vista – sono stati accordi molto
importanti, ma anche molto discussi e non a caso debbono ancora trovare la loro
piena applicazione in Europa: non hanno preannunciato accordi globali con la
Cina e il resto del mondo secondo il dettato ispiratore del Wto, ancora oggi
messo in scacco sia dalla politica americana degli ultimi venti anni sia dalla
competizione mondiale tra Francia e Stati Uniti. Sono entrambe potenze tanto
industriali quanto manifatturiere e quindi sono divise al loro interno, prima
che verso l’esterno, tra fronti protezionisti (agricoltori) e libero scambisti
(industriali), impedendo così in tal modo ogni accordo sovranazionale.
Il rinvio della “Settimana dell’agricoltura“, fiera che ogni anno si svolge a
Parigi, è un evento grave che fa ben prevedere con scarse possibilità di errori
che il settore più colpito dal coronavirus sarà quello agricolo. E si tratta di
regioni non solo economiche ma in primis culturali. Vi è che i prodotti
agricoli da cui deriva il cibo sono non solo alimenti, ma in quanto tali sono
anche costrutti simbolici che decidono i nostri stili di vita. Non occorre far
riferimento alle caste indiane per ricordare in che forte misura ciò con cui e
come ci alimentiamo contrassegni i nostri tabù così come le nostre abitudini e
come delimiti le nostre relazioni sociali.
I simboli determinano la vita sociale, così come le regole economiche. Anzi, io
sostengo da sempre che sono le regole culturali – la cultura in senso
antropologico – che determinano l’economia e le relazioni economiche. Per
questo credo che la crisi degli universi culturali che il coronavirus sta
provocando non potrà non avere effetti anche sulle regole economiche europee. E
questo accadrà perché esse sono fondate – a parer mio – più su ipostatizzazioni
dogmatiche al confine con il sortilegio (il divieto di far debito e la
convinzione che indebitarsi sia un colpa e che non si debbano fare investimenti
pubblici e che gli Stati siano costruzioni sociali simili alle famiglie e alle
imprese, che se fanno debiti non possono far altro che estinguersi, ben
differentemente dallo Stato, come ci dimostra una storiografia imponente). Ma
se si manterranno i nervi saldi e non si cadrà ancor di più nel dominio dei
maghi e degli esorcisti, quelle regole non potranno che cambiare. Per volontà
politica, ossia per ragioni culturali, certo dettate dall’emergenza.
Dall’emergenza può scaturire il vero, dal pericolo può nascere la salvezza,
come diceva Friedrich Holderlin, un grande letterato tedesco. Si afferma sulle
gazzette del mondo intero, infatti, che a poco a poco anche le cuspidi della
politica europea e nazionale inizino a interrogarsi su tali politiche
economiche. Ebbene, la salvezza è sempre presente nella storia: basta
riconoscerla e prenderla per mano.
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