A tre mesi dalle elezioni che decideranno il nuovo presidente degli Stati Uniti, Obama cerca di affrontare le difficoltà economiche interne facendo dell’Unione Europea un capro espiatorio.
Una parte del suo ragionamento politico ha un fondamento, in quanto è chiaro a tutti che le incertezze sui i tempi di attuazione del progetto di unificazione economica degli Stati europei e le politiche di puro contenimento della spesa, volute soprattutto dalla Germania, sono destinate ad allontanare la prospettiva dello sviluppo economico, compreso quello statunitense.
E’ però palesemente strumentale il tentativo di Obama di attribuire all’Europa le principali colpe della crisi economica internazionale. Il tentativo di cercare un nemico esterno utile a giustificare le difficoltà economiche interne, rappresenta un espediente tattico non nuovo, nemmeno storicamente, ma certamente dal fiato corto.
Il nuovo ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, ha avuto gioco facile nel ricordare ad Obama che la Lehman Brothers, protagonista, nel 2007, della più grande bancarotta della storia moderna, non è una banca d’affari europea, ma statunitense e che non sono stati gli europei ad inventare i prestiti ad alto rischio, meglio noti come subprime. I subprime indicano quei prestiti che, nel contesto finanziario statunitense, vengono concessi ad un soggetto che non può accedere ai tassi di interesse di mercato, in quanto ha avuto problemi pregressi nella sua storia di debitore. I prestiti subprime sono rischiosi sia per i creditori che per i debitori. La tipologia subprime comprende un’ampia varietà di strumenti di credito, quali i mutui, i prestiti per l’acquisto di auto e le carte di credito.
Tutt’oggi l’Europa sta ancora pagando il prezzo di quella bancarotta.
La crisi economica statunitense ha avuto avvio dai primi mesi del 2008 in seguito ad una crisi di natura finanziaria scoppiata nell’estate del 2007 a causa della crisi dei subprime. Tra i principali fattori della crisi figurano gli alti prezzi delle materie prime, una crisi alimentare mondiale, un’elevata inflazione globale, la minaccia di una recessione in tutto il mondo e per finire, una crisi creditizia con conseguente crollo di fiducia dei mercati borsistici.
Da questa crisi gli Stati Uniti stanno cercando, faticosamente, di uscire, anche se i dati relativi al mercato del lavoro si sono rivelati al di sotto delle aspettative. L’economia Usa nel maggio 2012 ha creato 69 mila nuovi posti di lavoro, l’incremento più basso degli ultimi mesi. Le analisti avevano previsto un incremento di 165 mila unità, ma così non è stato. Inoltre, il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti, a maggio, è salito all’8,2 per cento, rispetto all’8,1 per cento di aprile. Da questi dati si comprendono le preoccupazioni di Obama e il suo tentativo di attribuire ad altri le difficoltà economiche interne.
E’ vero che, a differenza dell’Europa, negli Stati Uniti il mercato immobiliare ha ripreso, modestamente, a salire e che le banche hanno ripreso a finanziare l’economia, ma la crescita del Pil si attesta su valori modesti: dall’1,7 per cento del 2011 a quello stimato per il 2012, del 2,1 per cento.
Quel che è certo che gli Stati Uniti non si risolleveranno dalla crisi economica, che ha caratteristiche internazionali, attraverso una politica finanziaria isolazionista. Gli Stati Uniti si possono salvare solo insieme all’Europa. L’esperienza storica che condusse alla crisi della Repubblica di Weimar in Germania e che sfociò nel nazismo, è li a ricordarci che l’isolazionismo non paga.
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