La proposta di Cinque Stelle e Lega semplifica un po’ il sistema. Ma disincentiva la partecipazione al mercato del lavoro. E sembra più ispirata a una ricetta keynesiana di sostegno economico che alla necessaria trasparenza ed equità del sistema
Lasciamo da parte i testi contrattuali: solitamente tanto vaghi quanto maggiori sono le distanze fra le parti in causa. Proviamo quindi a mettere insieme le dichiarazioni di questi ultimi giorni. La riforma fiscale «gialloverde» dovrebbe essere costruita intorno a pochi punti di riferimento. Per quanto riguarda l’Ires l’aliquota passerebbe dall’attuale 24% al 15%. Per l’Irpef le aliquote passerebbero dalle attuali cinque (fra ll 23% e il 43%) a due: 15% fino a 8o mila euro di reddito familiare e 20% oltre quel limite. Degli oneri per carichi di famiglia si terrebbe conto con deduzioni in cifra fissa decrescenti al crescere del reddito (3 mila euro per componente del nucleo familiare fino a 35 mila euro di reddito familiare, 3 mila euro per i soli componenti a carico fra 35 e 50 mila euro, nulla oltre questo limite). Verrebbero abolite per il futuro molte degli attuali oneri deducibili e detraibili.
Trasparenza
Con buona pace della semplificazione, una clausola di salvaguardia impedirebbe il verificarsi di aggravi Irpef che emergerebbero nel caso dei contribuenti meno abbienti (lasciando inalterata la loro posizione fiscale e, in buona sostanza, ripristinando l’attuale quota esente di 8 mila euro). Non è una flat fax ma, indubbiamente, ci somiglia molto e sarebbe irragionevole fare delle due aliquote (anziché una) un casus belli. Sarebbe, invece, corretto segnalare l’evidente maggiore trasparenza del sistema che conseguirebbe allo sfoltimento delle spese fiscali. Tutto bene, quindi. Non esattamente. Emergono, infatti, alcune questioni relative a specifiche implicazioni della proposta (perplessità che, in linea di principio, potrebbero essere risolte nel momento di definizione puntuale di tutti gli aspetti della riforma).
In particolare, la proposta sembra sfavorire la costituzione di nuclei familiari (nel senso di non prevedere, come accade già oggi, un carico fiscale coerente con i maggiori costi derivanti, per esempio, da un nuovo nato) così come sembra sfavorire la partecipazione al mercato del lavoro di un secondo percettore di reddito (nel senso di scoraggiare esplicitamente la presenza di un secondo o terzo percettore all’interno del nucleo). il che, per un Paese segnato dal crollo delle nascite, per un verso, e da una partecipazione femminile al mercato del lavoro particolarmente ridotta, per altro verso, non è cosa da poco (e potrebbe rivelarsi anche di dubbia costituzionalità). Ancora, non è del tutto chiara la logica complessiva del sistema. A parità di reddito, i proventi derivanti da alcune attività finanziarie (segnatamente, i titoli pubblici) continuerebbero ad essere tassati meno dei redditi da lavoro o da impresa mentre accadrebbe invece il contrario peri redditi derivanti da altre attività finanziarie o da proprietà immobiliari. Rimarrebbe poi irrisolta l’annosa questione dei cosiddetti incapienti.
Si noti che alcune delle questioni appena accennate sembrerebbero derivare dalla comprensibile volontà di contenere i costi della riforma pur in presenza di aliquote oggettivamente molto basse. Dando per scontato che i costi cui si parla (fra i 30 ed i 35 miliardi di euro, al netto dell’abolizione delle spese fiscali) siano credibili, e usando come termine di paragone, per esempio, la proposta di flat tax avanzata dall’Istituto Bruno Leoni è evidente che si è scelto di pagare in termini di equità la possibilità di tenere ferma almeno in parte l’aliquota indicata in campagna elettorale da uno dei partiti che andrebbero a formare il nuovo governo. Il trade off è evidente. Le preferenze della politica pure.
Il limite
Non è però tecnico il limite principale della proposta ma, piuttosto, strategico. Nelle intenzioni dei suoi ispiratori, la flat tax è sempre stata un tassello di un disegno inteso a contenere il ruolo dello Stato nell’economia e a restituire libertà di scelta ai cittadini nella convinzione che solo così si pongono le basi per una crescita duratura. Sorprendentemente, la fiat tax «gialloverde» sembra essere invece l’architrave di una strategia schiettamente keynesiana incentrata sulla riduzione della pressione fiscale in deficit (o quasi) per sostenere gli attuali apparentemente depressi livelli di attività economica. Apparentemente perché, in realtà, a sette anni dalla crisi del 2011, il vuoto congiunturale sembrerebbe esser stato colmato e sembrerebbe riemergere inalterata la natura strutturale dei problemi italiani.
Sotto questo profilo lo strumento gialloverde è diverso, ma l’ispirazione è esattamente la stessa che ha guidato la (inefficace) politica economica negli anni in cui l’attuale opposizione di centrosinistra era al governo. Del resto lo stesso Keynes lo aveva anticipato (quando era ancora in vita): «Gli uomini politici, …, credono erroneamente di essere esenti da influenze intellettuali, e sono di solito schiavi di qualche economista defunto». Non avrebbe immaginato di poter così dettare la linea tanto alla maggioranza quanto all’opposizione.
Ultimo, ma non meno importante: nel caso di una profonda riforma fiscale gli aspetti strettamente amministrativi sono altrettanto se non ancora più importanti degli aspetti legislativi. E sotto questo punto di vista è importante che i partiti che potrebbero formare il nuovo governo si accertino di essere attrezzati. Al Comune di Roma – parlo per esperienza personale – è necessario attendere un mese per fissare un appuntamento per poter richiedere un banale certificato di nascita. Ecco, mettere in pratica una riforma fiscale è un po’ più complesso che far funzionare un ufficio anagrafe(che, come si vede, ha le sue difficoltà). Sarebbe opportuno tenerlo ben presente. Le ferite provocate dalla restituzione degli 80 euro da poco meno di 2 Milioni di italiani (di cui 400 mila «troppo poveri» per usufruirne) sono ancora ben aperte.
Istituto B Leoni
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