Nella nostra Repubblica i redditi di cittadinanza già ci sono

 Diceva Leo Longanesi che “Una Repubblica fondata sul lavoro non sogna che il riposo”, o come diceva il professor Labò, illustre clinico bolognese: “bisognerebbe dare la pensione ai giovani, che possono divertirsi e far lavorare i vecchi per mantenerli giovani”. Ora il mondo è cambiato si va in pensione quando la voglia di mantenersi giovani ti sta passando, ma in un’epoca in cui anche quando si trova il lavoro da poche gratificazioni, rimane la tentazione o il sogno di percepire un salario a spese della collettività senza dover offrire nulla in cambio. Insomma un reddito di cittadinanza, che poi in Italia sarebbe di residenza, non vorremo lasciare indietro gli immigrati? Si dice che però, se per tre volte di fila rifiuti un lavoro, il reddito di cittadinanza te lo tolgono, mica puoi fare il mantenuto per il resto della vita, detta così sembra perfetta, ma in un Paese dove se va bene ti offrono un lavoro, quando mai arriveranno ad offrirtene tre? Poi col passare del tempo, perdi competenze e nessuno ti fila più, così sei salvo, hai scansato la “leva” del lavoro. Inoltre il massimo dei giovani disoccupati è concentrato al Sud, dove la possibilità di ricevere tre offerte di lavoro è francamente lunare. In Italia e all’estero: il rischio maggiore delle forme di supporto al reddito è che, una volta assegnate, finiscano per favorire la dipendenza dal welfare anziché l’impegno attivo a partecipare al mercato del lavoro; che siano cioè percepite come una sinecura invece come un intervento transitorio. Ne abbiamo avuto una dimostrazione, pochi giorni fa, coi primi esiti della sperimentazione sull’assegno di ricollocamento, di per sé intelligente e utile. Alla fine dello scorso anno, l’Agenzia per le politiche attive del lavoro (Anpal) ha invitato 28 mila percettori di Naspi a partecipare a un percorso di attivazione con colloqui, corsi di formazione e un sistema incentivante di ricollocamento. Solo un decimo ha risposto: il 90 per cento ha preferito la tranquillità del sussidio alla fatica del lavoro, anche perché sovente il sussidio si accompagna a lavori in nero, che consentono di mettere insieme un salario superiore a quello che percepiresti lavorando, soprattutto lontano da casa.  Come ha spiegato a Repubblica il presidente dell’Anpal, Maurizio Del Conte, l’esperimento va replicato su una scala più vasta per capire meglio cosa non abbia funzionato e correggere gli errori. Semplicemente, i cittadini apprezzano più il beneficio del reddito che i doveri della cittadinanza, né si può fargliene una colpa: i cattivi comportamenti derivano più spesso da perversi incentivi istituzionali che da cattiveria o pigrizia. Un caso clamoroso è quello della cassa integrazione straordinaria (che fino al Jobs Act poteva essere erogata addirittura per cessazione dell’attività): tale istituto presuppone l’immobilità dei fattori della produzione e tutela il dato formale (il posto) a scapito di quello sostanziale (il lavoro). Le conseguenze riguardano tanto la cattiva allocazione del capitale quanto la condotta opportunistica dei cassintegrati: secondo il Rapporto Eurispes 2016:l’83 per cento di quelli sondati ha dichiarato di aver svolto nell’ultimo anno almeno un lavoro in nero. La cassa integrazione non è, in fondo, un reddito di cittadinanza ante litteram?

E non sono un reddito di cittadinanza ante litteram anche le baby pensioni e le false pensioni di invalidità? Per quanto riguarda le prime, sono circa 500 mila coloro che percepiscono un assegno da prima del 1980, per un costo attorno ai 9 miliardi di euro annui. Verosimilmente, molti di loro hanno (o hanno avuto) un secondo lavoro sommerso. Lo stesso può dirsi per le pensioni di invalidità: tra il 2004 e il 2016 la relativa spesa è cresciuta da 8,5 a 15,4 miliardi di euro, mentre il numero dei beneficiari è passato da poco meno di 2 a quasi 3 milioni di individui. A queste si potrebbero aggiungere le pensioni di reversibilità, per gli abbienti o per giovani spose di anziani, in Liguria i matrimoni tra ultra settantenni e donne giovani, per lo più badanti, superano quelli dei giovani. Sotto l’etichetta del reddito di cittadinanza ante litteram si possono includere, anche quei lavori, che slegano il diritto di percepire un reddito dall’obbligo di produrlo, come spesso accade nel pubblico, basta pensare ai 9000 dipendenti dei Centri per L’Impiego, quelli che dovrebbero proporre i famosi tre lavori, che costano 500 mln di euro e collocano il 3% l’anno dei lavoratori.  Dispiace non essere generosi, ma ogni euro pubblico investito nel reddito di cittadinanza è un euro sottratto allo sforzo di alleviare il morso delle tasse su tutti gli altri. Più vengono sussidiate attività improduttive, più quelle produttive dovranno essere torchiate. In fondo, il reddito di cittadinanza del M5s non è una ventata di novità per il nostro paese non può produrre nulla di diverso da quanto abbiamo osservato negli scorsi decenni. Ha il vantaggio di essere universale, anziché discrezionale e clientelare, ma il risultato non cambia. E’ il lavoro che fa crescere il Paese, non i sussidi e perfino la Grecia cresce più di noi. Certo bisogna aiutare i poveri e proteggere chi è in difficoltà, ma bisogna prima favorire la crescita e legare i sussidi a tempo, a percorsi formativi ed a disponibilità ad accettare il primo lavoro. Se tutti i lavori sono nobili, non capisco perché se ne possano scartare due terzi. Mi dispiace essere cattivo, ma se paghiamo la gente per non lavorare e tassiamo chi lavora, non stupiamoci che imprese, competenze e lavoratori si trasferiscano all’estero e viste le alte tasse non tratterremo neppure i pensionati, in particolare quelli che hanno trovato, grazie alla generosità di Stato, una moglie giovane. Però se è difficile essere contro il reddito di cittadinanza è impossibile essere contro l’amore.

 

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