Al grido di “noi ci siamo” e “senza di noi non si va da nessuna parte”, Matteo Salvini comincia la sua “svolta” che non è paragonabile a quella di Salerno di Togliatti, ma che segna un punto importante, se vi darà seguito, per la Lega e per il panorama politico italiano. Doppia svolta perchè dopo aver aperto al governo di transizione, apre pure le danze per il Quirinale. Nomi non ne fa, sebbene parlando di un capo dello Stato “nuovo o vecchio” sembri non escludere un bis di Sergio Mattarella, mentre il nome del nuovo non può che essere quello di Draghi. Ma il messaggio è chiaro: l’elezione del Presidente della Repubblica, come la gestione dei soldi del Recovery Fund, sono partite su cui l’attenzione del Capitano è massima. Del resto molta scelta ormai non gli restava, i duri e puri della destra stanno andando o tornando dalla Meloni, mentre i moderati del centro, da Forza Italia, ai cespugli dell’Udc e di Cambiamo rischiano la frantumazione. Per Salvini non resta che la via di spostarsi al centro, anche per tenere unita non tanto la Lega, ma il suo elettorato che vede avvicinarsi dopo l’epidemia la crisi economica e vuole un partito di governo, più che di lotta. La svolta dovrà inevitabilmente passare in Europa per l’abbandono della Le Pen e pure per l’abbandono del modello trumpiano, due ipotesi a cui lavora da tempo il suo vice, Giorgetti.
Per tenere tutto insieme Salvini è costretto da un lato a spiegare l’ovvio. “Prima si vota meglio è, ma dopo il Covid, votare con gli ospedali pieni non sarebbe saggio”. Insomma, la Lega preferirebbe andare al voto, ma nella primavera del 2021 l’epidemia non sarà debellata e poi inizierà il semestre bianco, quindi verrà eletto il successore di Mattarella. A quel punto si potrebbe in teoria andare alle urne, ma che senso avrebbe a un anno dalla scadenza normale? Tutto questo a Salvini è ben chiaro, come gli è lampante che la partita del rimpasto e dell’eventuale Conte-ter non lo contempla: il Carroccio non entrerebbe in una maggioranza Pd-M5S, mentre un governo di centrodestra non è semplicemente possibile. Nello spostamento potrebbe tenere uniti a sè i moderati, magari guidati in una nuova formazione da Toti e dalla Carfagna e mantenere la guida del centro-destra. Inizialmente se ne avvantaggerebbe la Meloni, ma quando sarà evidente che sulle macerie non si va al governo e che non si può rimanere fuori dai giochi del nuovo Presidente della Repubblica e dalla gestione del Ricovery fund, pure Giorgia dovrà decidersi, anche perché se avremo una legge elettorale proporzionale, il governissimo sarà un obbligo domani.
Come tutte le svolte, comporta dei rischi, ma il restare fermi è un rischio ancora maggiore. Il problema è che l’unica carta disponibile per il dopo Conte, in grado di tenere insieme partiti e Paese, è Mario Draghi, che potrebbe caricarsi questo fardello solo se finita la missione, potrà approdare al Quirinale, dopo una rielezione a tempo di Mattarella. Il Paese ha bisogno di unità, competenza e riforme radicali, in una parola di leader coraggiosi. Per ora siamo a tatticismi sterili, con il governo nelle mani di un partito, i Cinque Stelle, in via di dissolvimento, un Pd che ha solo un’idea, restare aggrappato al potere dopo un rovinoso risultato elettorale e un guastatore, Renzi, alla disperazione. Ingredienti per una tempesta perfetta. Non resta che aspettare e vedere, ma una cosa è certa: se Salvini andrà fino in fondo, cosa di cui ancora dubitiamo, molte cose si muoveranno. Va pure detto che se cambia lo schema di gioco, non è detto che il Capitano resterà tale, non sempre si riesce a passare dal ruolo di Otello a quello di Desdemona.
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