Di Alessandro De Angelis
Ecco la scena. La sala del Lingotto esaltata, anche con parecchia gente fuori su di giri. In prima fila, due candidati su tre alla segreteria del Pd, Giachetti e Martina, che addirittura rinuncia a un’altra iniziativa per andare a Torino. Renzi che, dal palco, altrettanto gasato, adrenalinico, scamiciato chiama alla “resistenza” contro tutto e tutti, prigioniero di un passato mai elaborato. E che urla ferito “sono orgoglioso dei miei genitori”.
L’immagine dice tutto. Parliamoci chiaro, siamo al “muoia Sansone”, con un leader che, pur di creare danni ai propri avversari, travolge tutto, in una battaglia in perdita, a partire da se stesso. L'”altra strada”, che poi è sempre la “stessa strada” è lastricata di vittimismo, iper-garantismo, sindrome dell’assedio come terreno per chiamare alle armi il suo popolo contro i barbari. Non ci vuole un genio per vedere in questo approccio non solo una reazione emotiva, ma una strategia consapevole per “far fallire le primarie”, o quantomeno risucchiarle nel gorgo di un passato che torna e del personalismo leaderistico. Appunto, muoia Sansone, i filistei, il Pd. Perché è evidente che su questi presupposti la competizione poco si presta a scaldare i cuori e a risuscitare interesse nei tanti delusi che, proprio nell’era renziana, si sono allontanati dal Pd.
Questa presentazione del libro a Torino, o meglio questo ennesimo comizio, porta, comunque, un elemento di chiarezza. Renzi, per chi mai avesse creduto che fosse scomparso, è pienamente in campo, con un suo zoccolo duro di popolo e due candidati che, dopo gli strali giudiziari dei giorni scorsi, sono corsi a baciargli la pantofola con la scusa della solidarietà umana. Dunque, al netto di tutte le chiacchiere, i politicismi, i grovigli mentali in cui sono specializzati dentro il Pd, si è capito che l’unica alternativa a Renzi è Nicola Zingaretti, anzi è proprio il timore che il partito finisca nelle sue mani ad alimentare tanto attivismo dell’ex leader. Per la serie: se vinci, comunque devi fare i conti, col mio popolo, con le mie truppe, perché sono ancora in grado di pesare e di contare dentro il Pd, finché non deciderò di andarmene a fare un’altra cosa.
Insomma, è ancora il leader di un bel pezzo di un partito che in questi ha contribuito a mutare geneticamente, nelle politiche, nei valori, nella mentalità, nel linguaggio. Ecco, il punto è proprio questo. Questa esibizione muscolare di Torino, dopo le parole sulla magistratura nei giorni scorsi, parzialmente corrette oggi, squarcia il velo di ipocrisia su queste primarie del Pd, finora composte, politicamente corrette, prive di una analisi vera di ciò che è successo in questi anni. Renzi c’è, col suo orologio politico fermo al 4 dicembre, con i suoi discorsi che ormai sembrano un disco rotto, con le solite battute su Di Maio, Salvini, Toninelli, la Lezzi stra-sentite decine di volte. C’è con la sua egolatria e le sue rimozioni del passato, sempre più rabbioso e incapace di trasformare il reducismo in sogno. Ed è tornato, in questo modo, a prendersi la scena con l’evidente intento di giocare e condizionare la vicenda del Pd. Complicato, di fronte a una presenza così ingombrante, pensare di andare “oltre” Renzi, senza andare “contro” questo impianto politico, culturale così ingombrante. Anzi, senza un controcanto è che gli ultimi dieci giorni monopolizzerà il dibattito con questo one man show, tra querele firmate dal palco, battutismo esasperato, toni grillini contro gli “incompetenti e i cialtroni”, con lo spirito del primo della classe che non ha capito perché gli italiani lo hanno bocciato. Diciamo le cose come stanno. Sulla vicenda giudiziaria si è ripreso la scena, col suo tour in giro per l’Italia sta gasando il suo popolo. E si rischia l’effetto depressione alle primarie, se questo è il film che si proietta. Chissà, forse per cambiare il Pd andrebbe affrontato di petto, ma questo è un altro discorso.
Da Huffington post
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