“Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente”. Proviamo a partire dalle parole che Mao Zedong, che di strategia politica se ne intendeva per provare a trovare un senso a questa sciagurata diciottesima legislatura. Già, perché allo stato attuale sembrerebbe un rompicapo senza soluzione. Ricapitoliamolo, per chi fosse stato in ferie in quest’ultima settimana: non si capisce chi ha vinto le elezioni. Dovrebbe essere il centrodestra in teoria, se guardassimo alle coalizioni col suo 37% (42% dei seggi) contro il 32,7% (36% sei seggi) del Movimento Cinque Stelle e il 23% del centrosinistra (18,8% dei seggi). Tuttavia, se guardassimo ai partiti, avrebbe vinto il Movimento Cinque Stelle, che si presentava da solo, e la Lega – prima forza della coalizione di centrodestra – sarebbe solo terza col suo 17,4%, seguita pure dal derelitto Pd, che ha preso il 18,7%.
Già incaricare un Presidente del Consiglio dei ministri, per Sergio Mattarella, sarebbe un problema. E anche lo trovasse, sarebbe problematico per l’incaricato di turno – sia esso Salvini o Di Maio o chiunque altro – trovare una maggioranza in questo caos. Per fare Pd-Cinque Stelle serve la volontà di 91 deputati democratici, molti dei quali di stretta osservanza renziana. Per fare Lega – Cinque Stelle bisognerebbe rompere la coalizione di centrodestra e poi decidere chi comanda tra Salvini e Di Maio, per aggiungere al tavolo Forza Italia bisognerebbe risolvere una leggerissima pregiudiziale berlusconiana tra gli iscritti del Movimento. Ancora, aggiungere il Pd al centrodestra a guida Salvini equivarrebbe al peggiore dei suicidi della sinistra e puntare alla compravendita – pardon: responsabilità – di 54 transfughi verso il centrodestra non è semplice, soprattutto se non è Berlusconi a dare le carte e a sedersi sulla sedia del Capo. L’unica possibilità, probabilmente, è quella di un governo di minoranza usando la carta della non sfiducia sperimentata nel 1976 col governo monocolore Dc guidato da Giulio Andreotti, che passò l’esame delle Camere grazie all’astensione del Psi e degli altri piccoli partiti che gravitavano nell’area di maggioranza.
Oppure. Oppure c’è una carta di cui nessuno ha finora parlato, forse perché non ci hanno pensato, o perché non ci crede nessuno, o per lasciarla coperta e tirarla fuori al momento buono. È la carta che prevede un governo che ottiene la fiducia di tutti i partiti, dal Cinque Stelle alla Lega, passando per Leu, Pd e Forza Italia. Senza alcun colore politico, quindi, con un premier che non appartiene a nessuno di essi – un tecnico, un esponente della società civile -, ma con ministri politici, scelti tra ciascuna delle forze in campo. Un governo – costituente, potremmo definirlo – che avrebbe lo scopo di garantire la sostenibilità dei conti pubblici, di portare avanti alcuni specifici punti programmatici comuni a ciascun partito o a buona parte di essi e di riscrivere, una volta per tutte, le regole del gioco. Durerebbe quanto serve, questo governo, e non avrebbe spazio per prendere iniziative al di fuori del perimetro indicato alle Camere nel richiederne la fiducia.
C’è una carta di cui nessuno ha finora parlato: è la carta che prevede un governo che ottiene la fiducia di tutti i partiti, dal Cinque Stelle alla Lega, passando per Leu, Pd e Forza Italia. Un governo – costituente, potremmo definirlo – che avrebbe lo scopo di garantire la sostenibilità dei conti pubblici, di portare avanti alcuni specifici punti programmatici comuni a ciascun partito o a buona parte di essi e di riscrivere, una volta per tutte, le regole del gioco
Difficile a farsi? Sì moltissimo. Ma sarebbe una soluzione da cui tutti avrebbero da guadagnarci. Primo: perché non si riesce a stabilire chi ha vinto – ergo: non ha vinto nessuno – e nessuno, nel caso, avrebbe da gridare contro il mancato rispetto della volontà popolare che delegittimerebbe ipso facto, qualsiasi altro esecutivo. Ognuno otterrebbe qualcosa di quel che chiede e potrebbe portarlo in dote ai suoi elettori. E al prossimo giro, ci si confronterebbe sui programmi per il futuro, non sulle recriminazioni del passato. Non solo: ogni partito potrebbe leccarsi le ferite o consolidare le proprie inattese vittorie in santa pace, preparandosi senza patemi al giro successivo.
Secondo: perché le regole del gioco vanno comunque cambiate e approvarle a maggioranza fa schifo. Abbiamo ancora negli occhi i disastri del Porcellum e del Rosatellum (con l’Italicum in mezzo). Una mediazione su una nuova legge elettorale, partendo dalla modifica dell’esistente, sarebbe il miglior viatico per una prossima competizione elettorale serena, senza nessuno che si senta fregato in partenza.
Terzo: perché una maggioranza politica potrebbe formarsi da sola, in corso d’opera. Poniamo, putacaso, che il Partito Democratico (o la Lega, o i Cinque Stelle) si trovasse a votare sempre contro i provvedimenti del governo costituente, potrebbe uscirne e tornare all’opposizione. A quel punto si potrebbe pensare a una crisi, a una nuova maggioranza a un consiglio dei ministri a misura della medesima, fatto salvo il patto sulla necessità di trovare una legge elettorale che vada bene a tutti (avete cinque anni, al massimo: ce la potete fare). In altre parole, quel che oggi sembra impossibile sulla carta, per orgoglio e resistenze incrociate, potrebbe nascere nella pratica.
Quarto: perché ci sono un po’ di questioni costituzionali da chiarire e potrebbe essere la volta buona. Che ne facciamo delle province? Possiamo riportare a livello nazionale le competenze sulle politiche attive del lavoro? E magari ragionare di un nuovo rapporto tra Stato e Regioni che superi la brutta riforma del Titolo V del 2001 e che dia corpo alla volontà popolare dei referendum di Lombardia e Veneto? Sono solo tre questioni tra tante che potrebbero essere affrontare. Per dire: se qualcuno volesse abolire il famoso articolo 81, quello del pareggio di bilancio – quasi tutti, più o meno, hanno dichiarato di volerlo fare – perché non ora? Lo stesso vale per la spending review copertura alle spese extra, per ogni forza politica. Così come del resto, tutti o quasi avevano detto che volevano disboscare la foresta di deduzioni e detrazioni.
Quinta e ultima ragione per deporre le armi: perché tornare a votare subito non conviene a nessuno. Non a chi il 4 marzo ha vinto, che rischia – non si sa mai – di sprecare un clamoroso capitale di voti e seggi. Non a chi ha perso, in pena elaborazione del lutto. E nemmeno ai singoli parlamentari eletti, anche fossero tutti confermati, che si troverebbero ad affrontare una seconda campagna elettorale nel giro di pochi mesi, col rischio di raddoppiare i costi e di rimanere fuori.
Insomma: noi vi abbiamo detto perché sì. Ora voi spiegateci perché no.
Da Linkiesta