Da Di Maio definito «uno che approfondisce, uno che studia» (Franceschini) a Conte «autorevole, colto e anche veloce e sagace tatticamente» (Zingaretti), fino al giudizio sui cinquestelle nel loro insieme: «Il più grande movimento di massa degli ultimi trent’anni» (Boccia)
Sarebbe facile ora sghignazzare sulla fine ingloriosa dell’ultimo tentativo di corteggiamento nei confronti dei cCinquestelle messo in campo dal Partito democratico di Enrico Letta, sedotto e abbandonato da Giuseppe Conte sulla strada che doveva condurre alla candidatura di Nicola Zingaretti al Campidoglio, all’ultimo minuto bruscamente rimbalzato, come si dice a Roma, in favore di Virginia Raggi. Con Francesco Boccia a giurare che nonostante tutto i democratici sosterranno «l’alleanza con la Raggi, ma con Gualtieri sindaco» (un inizio di campagna elettorale promettente, bisogna ammetterlo), per poi sentirsi dire da Chiara Appendino che invece loro, a Torino, non se lo sognano nemmeno di appoggiare il Pd al secondo turno.
Per finire con lo sberleffo finale dell’intervista di Luigi Di Maio al Fatto quotidiano, in cui ieri il ministro degli Esteri, dopo essersi chiesto candidamente perché mai i Cinquestelle non avrebbero dovuto appoggiare Raggi a Roma (col tono con cui la bella dice all’incredulo spasimante di non avere mai ricevuto nessuna delle sue lettere d’amore, o forse di averle cestinate scambiandole per pubblicità), concede che, qualunque cosa decida di fare Roberto Fico – che pare proprio deciso a restarsene dov’è – «una cosa è certa, conosciamo Napoli e le dico che è pronta per una coalizione tra noi e i dem». Ma che gentili.
A questo punto, ripetiamolo, prendersela con Letta sarebbe davvero troppo facile. E non solo perché su questa linea non ha fatto altro che continuare la non proficua opera del predecessore, Zingaretti, e del suo gran consigliere, Goffredo Bettini, lasciando peraltro l’intero dossier nelle mani del primo e più entusiasta di tutti i fautori del matrimonio con i cinquestelle, vale a dire quello stesso Boccia che ieri, in un’intervista all’Huffington post, non pago dei risultati già ottenuti (un due di picche dopo l’altro), è arrivato a definire i Cinquestelle «il più grande movimento di massa degli ultimi trent’anni» (d’accordo, almeno per avere lasciato il dossier in mano a Boccia, obiettivamente, un po’ con Letta potremmo anche prendercela). Dimenticando che già una volta, in occasione delle regionali, i Cinquestelle li avevano menati per il naso per mesi, salvo poi concedersi solo lì dove erano sicuri della sconfitta, per poi addebitarla proprio all’alleanza con il Pd (dalla Liguria all’Umbria).
Ma la verità è che non c’è leader del centrosinistra che prima o poi non abbia civettato con i populisti, imitandone i modi e corteggiandone i leader: ora in competizione con loro, in una miserevole gara di antipolitica e giustizialismo, nella speranza di guadagnarsi così l’applauso dei loro giornalisti e intellettuali di riferimento (speranza non sempre delusa, purtroppo), ora semplicemente inginocchiandosi dinanzi ai partiti avversari, autoflagellandosi e implorando perdono per tutti i propri passati peccati.
La scelta tra l’una e l’altra strada è anche questione di carattere, e non stupisce che la prima – il modo, diciamo così, più competitivo – sia stato il prediletto, ad esempio, da Matteo Renzi, specialmente nella fase iniziale della sua ascesa, quella della rottamazione, in cui non mancava mai di prendersela con i politici di professione, o peggio ancora con «la casta», «il Palazzo» e i parlamentari «attaccati alla poltrona» (una retorica rispolverata con insuccesso anche in occasione del referendum istituzionale). In quella stagione, tra l’altro, l’attuale leader di Italia viva era assai meno garantista di come si sarebbe mostrato in seguito, non disdegnando di chiedere dimissioni a ministri appena sfiorati da un’inchiesta, e si batteva con forza per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. Terreno su cui peraltro sarebbe stato presto seguito e infine superato tanto da Pier Luigi Bersani quanto da Enrico Letta (è sotto il suo governo che il finanziamento è stato sostanzialmente abolito, salvo forme residuali come il 2 per mille), i quali preferiranno però la strada del corteggiamento diretto, esplicito, a cuore aperto. Per non dire proprio in ginocchio.
È una storia nota, che generalmente si fa partire dal primo celebre streaming in cui Bersani fu preso a pesci in faccia da Vito Crimi e Roberta Lombardi. Vale a dire dall’attuale pseudo-capo politico (la sua posizione è oggetto di controversia anche in tribunale) del principale alleato di governo del Pd e dall’attuale assessora regionale (ovviamente alla «transizione ecologica e digitale») della giunta Zingaretti. D’altra parte, dato il perfetto stallo uscito dalle elezioni del 2013, va pur detto che rivolgersi anche a loro, da parte del segretario del partito arrivato primo, era più che ragionevole (semmai si potrebbe discutere del modo).
Fatto sta che quel primo appuntamento andato a buca sarebbe rimasto sempre sullo sfondo, quasi come un trauma non superato, alimentando una strana forma di coazione a ripetere, ai limiti della sindrome di Stoccolma.
Ancora nel 2017, Bersani si dirà prontissimo, qualora fossero stati i grillini a vincere le successive elezioni (e a chiederglielo), a sedersi con loro per un nuovo incontro in streaming, a parti rovesciate. E arriverà a definire il Movimento 5 stelle come l’argine al populismo, in un articolato discorso ai militanti del suo neonato partito, così sintetizzato il 21 marzo da Francesco Verderami sul Corriere della sera: «“I Cinquestelle tengono in stand-by il sistema. Ma se alle prossime elezioni, in assenza di un centrosinistra largo, s’indebolissero, arriverebbe una robaccia di destra”. Sarebbero i grillini quindi, non il Pd a trazione renziana, l’argine alla “deriva populista e nazionalista”». E ancora: «Una forza che raccoglie al primo colpo il 25% dei consensi non è un fenomeno transitorio. Anzi loro sono il partito di centro dei tempi moderni».
Replicherà il giorno dopo Alfonso Bonafede: «Non voglio commentare l’opinione rispettabile di Bersani. Sottolineo soltanto che noi non facciamo accordi con nessuno, puntiamo al 40 per cento e, una volta al governo, faremo le nostre proposte che le altre forze politiche potranno votare alla luce del sole».
Non c’è bisogno di ricordare che alle successive elezioni, nel 2018, la robaccia di destra arriverà eccome (dai decreti sicurezza allo scempio della prescrizione compiuto dal succitato Bonafede) e a realizzarla sarà proprio il Movimento 5 stelle, primo partito in Parlamento, in alleanza con la Lega.
È inoltre degno di nota che per Bersani e per tutta l’area a sinistra del Pd i successi elettorali raggiunti dal Movimento 5 stelle nel 2013, quando cioè alla guida dei democratici c’erano loro, sono un dato oggettivo, impersonale, quasi meteorologico («Questa cosa dei grillini, cosa volete, adesso ve la dico in due parole. Cos’è successo in quella elezione? Noi abbiamo incrociato il picco del grillismo, l’abbiamo incrociato, ci abbiamo perso 4-5 punti, è successa lì la questione», dirà Bersani, ad esempio, alla festa dell’Unità di Cremona, l’8 luglio 2013). Quando tocca a Renzi, ovviamente, è tutta colpa sua.
Ma sto divagando. E prima di chiudere questo sia pur sommario resoconto non posso non ricordare Dario Franceschini, che nel gruppo dei corteggiatori è stato indubbiamente uno dei più romantici e ispirati. «Ora costruiamo una casa comune con i sassi che ci siamo gettati contro», twitta ad esempio all’alba del secondo governo Conte, il 15 settembre 2019 (tralascio per brevità e per pudore le repliche più triviali, comprese le mie, circa natura e consistenza dei «sassi»). E meno di un mese dopo, a proposito di Di Maio, ecco che il ministro della Cultura si spinge là dove nessun rivale, prima di lui, ha avuto il coraggio di osare: «Di Maio? Non lo conoscevo personalmente, ma ora ho visto che sui dossier è uno che approfondisce, uno che studia» (Otto e mezzo, 7 ottobre 2019).
Uno slancio paragonabile solo a quello della celebre intervista di Zingaretti al Corriere della sera su Conte, di cui però, per la dannata fretta che sempre incalza i cronisti, si ricorda solo la versione più stringata, quella sul «punto di riferimento», perdendo forse il meglio. E cioè: «Autorevole, colto e anche veloce e sagace tatticamente. Non va tirato per la giacchetta. Anche se è oggettivamente un punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste» (20 dicembre 2019). Definizione superata solo da un’altra indimenticabile dichiarazione di Boccia all’Huffington post, imbattibile per sintesi e icastica efficacia: «Conte è il nostro Bearzot» (18 settembre 2019).
Qualunque cosa si pensi dell’autorevolezza, della velocità e della sagacia tattica dell’Avvocato del popolo, o delle sue doti di allenatore, le ultime infelici vicissitudini dell’alleanza giallorossa, a Roma e non solo, consentono di mettere un punto almeno su due aspetti del suo controverso profilo: che sarà pure Bearzot, ma di sicuro non è «loro». E che comunque, se non altro, si è dimostrato assai più veloce e tatticamente sagace dei suoi corteggiatori del Pd.
Da Linkiesta
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