L’esempio virtuoso di Singapore

Mentre in Italia il dibattito verte su temi quali: le vacanze al Papeete in tempo di pandemia, il politico che dice la frase sbagliata e si discute alla nausea di gay e razzismo, il mondo va incontro ad una delle più grandi trasformazioni della storia: perché il covid non è stato solo un’emergenza sanitaria, ma anche il catalizzatore di un processo di trasformazione tecnologica, in cui il mondo del business e la società usciranno completamente trasfigurati.

Un esempio concreto: nei primi tre mesi di pandemia si sono aggiunti all’e-commerce più  utenti che nei dieci anni precedenti!

Molti analisti stimano che abbiamo assistito ad una accelerazione di almeno cinque anni rispetto ai processi di diffusione tecnologica nel solo 2020.

E questo trend accelererà perchè chi oggi ha investito per portare le attività online, non tornerà magicamente offline. Chi ha iniziato ad acquistare su internet per la prima volta, non chiuderà il proprio account Amazon finita la pandemia. Nè le aziende smetteranno di usare Zoom e Teams o di firmare i documenti in maniera digitale con Docusign, tornando a carta e penna.

Di fronte a un mondo del lavoro che non tornerà più come prima, una nazione come l’Italia che progettualità si è data? Parliamo di un Paese in cui già prima della pandemia la borsa valeva complessivamente meno della sola Facebook, contenendo peraltro fra le prime 40 aziende più squadre di calcio indebitate (ben 3) che non realtà tecnologiche. Non ci è dato sapere la risposta.

A Singapore invece a primeggiare sui giornali vi è la progettualità reale di uno Stato che vuole essere crocevia di interessi economici e innovazione (nonostante la nazione venga ancora considerata poco gay-friendly secondo gli standard progressisti con cui in occidente – dove però si viene assaliti brutalmente in casa – si giudica il grado di civiltà di un paese, dove quasi nemmeno esistono borseggiatori), diamo un veloce sguardo a cosa il governo ha silenziosamente messo in atto, mentre gestiva l’emergenza sanitaria, per farsi trovare pronto anche alla sfida economica di domani.

Delle 100 aziende tech principali, 80 hanno oggi una presenza importante sull’isola, molte delle quali attratte sia da politiche fiscali (strategia applicata anche dall’Irlanda, che non si vuole qui necessariamente elogiare), ma anche da nuovi incentivi economici per la creazione di centri R&D, nonchè dall’efficienza della giustizia e basso livello di burocrazia e corruzione. Solo nel 2020 hanno aperto o accresciuto la propria presenza nello Stato aziende come Zoom, Twitter, Paypal, Tencent, Alibaba, ByteDance (proprietaria della popolare app TikTok) che ha aperto un quartier generale di oltre 5000 metri quadrati. Nel complesso il 2020 ha segnato il record di investimenti stranieri negli ultimi 12 anni: 17,2 miliardi di dollari che produrranno, si stima, 19000 nuovi posti di lavoro. Sempre più milionari hanno inoltre scelto di fare di Singapore la propria residenza, ultimo dei quali il co-fondatore di Google, Sergey Brin, così come in precedenza quello di Facebook (Saverin), o quelli del colosso cinese Haidiliao.

Secondo una ricerca di KPMG, Singapore è oggi alle spalle della sola Silicon Valley, come polo di innovazione tecnologica, davanti a New York, Shanghai, Londra, Tokyo e Tel Aviv.

Singapore vanta anche un’influenza su tutto il bacino di utenza del Sud Est asiatico, un’area di 650 milioni di persone. Per questo motivo ad esempio, Alibaba ha acquisito la piattaforma e-commerce Lazada, nata nella città-Stato, per accelerare il proprio piano di servire oltre 2 miliardi di consumatori e creare 100 milioni di posti di lavoro globalmente entro il 2036. Dall’altro lato, l’altra azienda singaporiana SEA Limited, quotata alla borsa di New York, compete per quello stesso bacino, con la piattaforma Shopee, oltre che operare in altre aree a forte crescita quali cybersecurity e videogames.

A parte la grande pianificazione, la nazione ha beneficiato inoltre delle tensioni USA-Cina, e della continua battaglia per privacy e proprietà intellettuale, che ha portato le aziende a stabilirsi in territori “neutrali” con il piccolo esodo da Hong Kong, viste le vicissitudini politiche.

Con l’attrazione di grandi aziende e poli d’innovazione, Singapore punta a creare un circolo virtuoso, attraverso programmi tra università, governo e giganti tech, che continuino a dar vita a quel florido mondo di start-up fondate proprio da ex dipendenti di multinazionali tech che sull’isola trovano ampio accesso sia a conoscenza che capitali, proprio come in California.

Questo percorso di investimento e riconversione da settori tradizionali alla new economy, già avvenuto in passato in Asia in città quali Shenzhen e Shanghai per citarne un paio, non è però stato indolore. Con la pandemia che ha colpito particolarmente i lavoratori nei settori tradizionali dell’economia, è aumentato il senso di protesta e frustrazione dei cittadini nei confronti degli stranieri, i quali costituiscono circa un terzo della forza lavoro, e hanno spinto il partito di minoranza a rosicchiare quattro seggi al granitico “PAP” che da sempre governa lo Stato. Pur senza un clima di aperta tensione, meno che meno di violenza o proteste di piazza, la perdita di consenso e le lamentele serpeggianti ha spinto il governo a restrizioni sui lavoratori stranieri, i quali hanno assorbito per la maggior parte la disoccupazione creatasi per la pandemia, con circa 190000 costretti a lasciare la città-Stato nel 2020.

Sebbene il Governo ora stia sperimentando in fase pilota una speciale categoria di visti per i professionisti specializzati in settori tecnologici, e stia tentando ambiziosi programmi di rieducazione e riconversione della forza lavoro locale – in partnership con aziende quali Grab, Microsoft o Alibaba – la questione demografica resta un ostacolo.  Prendiamo ad esempio Ho Chi Minh City, in pieno boom economico: essa può attingere a tutta la giovane popolazione del resto del Vietnam, cosa che Singapore, con i suoi 4 milioni scarsi di cittadini non può fare. Tale limite, unito per il momento ad un inasprimento delle misure di deterrenza verso l’utilizzo di capitale umano straniero, pongono una minaccia allo sviluppo che potrebbe costare alla nazione quasi 30 miliardi di dollari in mancata crescita di qui al 2030, secondo alcune stime.

Con pregi e difetti, è comunque interessante guardare l’evoluzione di uno Stato che ha una progettualità e notare che sui giornali locali e tra i cittadini è di tale progettualità che si dibatte. In definitiva si parla di “diritti”: il diritto a stare al passo coi tempi, a poter continuare a vivere di lavoro senza dover sperare in un assistenzialismo insostenibile basato sul debito e non venire cancellati dai libri di storia.

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