Toh, si sono svegliati i Cinque Stelle. Dopo settimane di torpore e di servile acquiescenza ai pensieri e alle parole di Matteo Salvini, quasi fossero una specie di Ncd col 30% dei voti, Di Maio e i suoi hanno capito che non potevano più lasciare al leader leghista il potere di dettare tutta l’agenda di governo, lasciandogli la prima e l’ultima parola su tutto, dall’immigrazione all’Europa, ma soprattutto la valanga di voti che ha permesso alla Lega di passare dal 17% al 30% nei sondaggi, in poco meno di un mese di governo.
Giusto così: piacciano o meno, il taglio dei vitalizi alla Camera, il decreto dignità, la nazionalizzazione di Alitalia, la messa in discussione dell’assegnazione dell’Ilva ad Arcelor Mittal, dell’accordo Anas – Ferrovie, della Tav Torino – Lione, finanche la dismissione dell’Air Force Renzi sono un distillato di agenda pentastellata, che controbilancia la deriva salviniana dei porti chiusi, dei campi rom da sgomberare, dei taser alla polizia e dei fucili alle nonnine, della guerra ai diritti delle coppie omosessuali. Controbilancia, badate bene, ma non vi si oppone. Perché la prima regola del fight club gialloverde – finora, perlomeno – è che ognuno si realizza il suo pezzo d’agenda senza badare a quella dell’altro: se Salvini vuole la flat tax, va tutto bene, basta che ci sia il reddito di cittadinanza, e viceversa. Come da contratto, insomma.
Un po’ di maretta nel governo gialloverde, non fa che rafforzare Lega e Cinque Stelle: perché ne distingue i profili, ne evita la sovrapposizione in un indistinto blocco populista, permette loro di andare a pescare in bacini elettorali differenti. Pioggia sul bagnato, per le opposizioni, che si ritrovano a reggere il moccolo all’una o all’altra parte in causa
Sembra lo schema perfetto, questo della grande coalizione populista: due governi in uno, tutti contenti (quota parte) e buonanotte alle opposizioni. Il problema è ce non funziona esattamente così, e gli scricchiolii di questi giorni lasciano presagire che casa Conte non sia esattamente così solida come sembra. Soprattutto, perché la Lega non è accomodante quanto lo sono stati i Cinque Stelle nei primi trenta giorni di sbornia salviniana: alla base, e pure ai vertici, non piace la stretta sui contratti a termine, non piace il blocco alla Torino – Lione, non piace nemmeno la nazionalizzazione di Alitalia, e sulle ferrovie – storico terreno di battaglia pentastellata, storico feudo di potere leghista, soprattutto in Lombardia – si annunciano baruffe.
Aggiungete al cocktail la guerra delle nomine, la legge di bilancio e le elezioni europee all’orizzonte, in arrivo ed ecco un bella miscela esplosiva, pronta a deflagrare nella stagione autunno-inverno, col suo carico di botta e risposta tra giornali, televisioni e social network. Abbastanza per poter preconizzare, sin da ora, che chi crede in un’alleanza stabile e duratura tra grillini e leghisti, forte del sostegno lunare che sta sostenendo l’azione del governo, è abbastanza fuori strada. Si tratta di due forze presto o tardi destinate a contrapporsi l’una contro l’altra. Meglio ancora: destinate a crescere in quanto rivali, non in quanto alleate.
Ecco perché in fondo, un po’ di maretta nel governo gialloverde, non fa che rafforzare Lega e Cinque Stelle: perché ne distingue i profili, ne evita la sovrapposizione in un indistinto blocco populista, permette loro di andare a pescare in bacini elettorali differenti. Pioggia sul bagnato, per le opposizioni, che si ritrovano a reggere il moccolo all’una o all’altra parte in causa. Prendiamo la questione della Tav: favorevole o contrario che sia al blocco dell’opera il Pd non sarà più contro il governo, per l’opinione pubblica, ma contro la Lega o contro i Cinque Stelle. Un bel problema, per una forza alla ricerca di un’identità autonoma e alternativa. Grasso che cola, per chi sogna una nuovo bipolarismo incardinato su Lega e Cinque Stelle. Chissà che le prossime europee non siano già il primo banco di prova. Chissà che non ne seguano altri, ben più gravosi, prima di quanto ci immaginassimo.
Da: Linkiesta