Diamo fiducia a Mario Monti. Ora che la manovra di stabilizzazione dei conti è diventata realtà , il nuovo premier ed i suoi ministri hanno, nelle loro intenzioni, il sommo compito di liberare l’Italia da quel male oscuro che ne zavorra la crescita, non solo economica, ma anche sociale e culturale: le corporazioni. Si identificano con questo termine associazioni di categoria professionali, volte alla difesa di interessi di parte che generano, appunto, corporativismo,cioè difesa ad oltranza degli stessi, a discapito di quelli generali. Le corporazioni nacquero nel medioevo con uno scopo egalitario, quindi di giustizia, in una terra, la nostra, da sempre sfruttata da signorie straniere. Ma, tornando ai giorni nostri, le cose sono parecchio cambiate. Oggi non sono più sinonimo di aggregazioni di arti e mestieri, ma una rete di maglie fittissime con cui ognuna di esse cerca, il più avidamente possibile, di accaparrarsi una fetta di torta e tanto più grande è la fetta, meglio è. Con una strategia di monopolio, le corporazioni, ben presenti in parlamento, soffocano sul nascere qualsiasi tentativo di creare concorrenza attraverso la liberalizzazione dei prezzi, che a sua volta crea opportunità di maggior benessere economico e di innovazione culturale e sociale. Questo tipo di consociativismo malato, acquisì potere in modo lento ma progressivo agli inizi degli anni novanta, con l’avvento di tangentopoli e quindi con la morte della prima repubblica, nella quale già una decina di anni prima aveva visto scomparire una generazione di politici di tutt’altra pasta, per quanto concerne valori morali e civili, sia di destra che di sinistra. Di corporazioni ne esistono di tanti tipi, dai giornalisti ai farmacisti, dalle banche agli avvocati per arrivare ai notai od ai magistrati; ma una delle più potenti è quella delle associazioni sindacali ; CGIL, CISL e UIL, queste ultime , arroccate nella strenua difesa della sacralità dell’articolo 18. In realtà questa norma giuridica, di sacro, in uno stato di diritto, non dovrebbe avere nulla e infatti rappresenta una stortura tipica di un paese corporativo come il nostro. Come è noto, l’art.18 prevede il reintegro nei ranghi aziendali di un lavoratore dipendente a tempo indeterminato che venga licenziato senza giusta causa. Ma determinare l’aggettivo “giusto” in ambito di lavoro, comporta distorsioni paradossali in materia di diritto civile. Innanzitutto, una causa di lavoro può articolarsi in numerosi gradi di giudizio, che avrebbero un risultato finale dopo anni e che spesso sovverte i precedenti, perchè determinato dalla soggettività del magistrato, con gravi danni economici per l’azienda, la quale dovrà sborsare tutte le mensilità dalla data del licenziamento, più gli interessi, rivalutazione monetaria, contributi previdenziali, sanzioni ed infine c’è l’esborso delle spese processuali. Paradossalmente l’art.18 non impedisce la rimozione dai quadri lavorativi del dipendente nelle ristrutturazioni delle grandi imprese, penalizza invece le medio-piccole che possono avere necessità di licenziare il singolo, nel caso di assenteismo od inefficienza. La Camusso sostiene che l’art.18 non si tocca perchè è una norma di civiltà . Allora Germania, Francia, Finlandia, Spagna ecc…. non lo sono? In Germania ad esempio, se il licenziamento risulta illegittimo, si reintegra il lavoratore o lo si risarcisce, al massimo con 18 mensilità . Tutto ciò dimostra come i sindacati in Italia siano una corporazione che protegge, ma a volte garantisce vere e proprie rendite parassitarie a poco più della metà dei lavoratori dipendenti, mentre vi sono 7 milioni di loro colleghi senza garanzie di previdenza, infortuni, malattie e indennizzi e senza dimenticare che una parte di essi è costretta a lavorare sotto le sembianze di lavoratori autonomi, ma fatto ancor più grave è che, moltissimi sono i giovani assunti in forme di lavoro non garantite, una vera apartheid, insomma.
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