Una cosa ci dicono le dimissioni di Zingaretti da segretario del Partito democratico: è cresciuta ulteriormente l’autonomia del governo Draghi, essendo sempre più evidente la debolezza dei partiti della maggioranza. Più i partiti sono deboli, più libero è il Presidente del Consiglio, e persino i ministri politici avranno meno condizionamenti. Il quadro dei partiti sembra il campo di Agramante: il Pd è acefalo e come sempre diviso. Dei suoi tre ministri, due, Franceschini e Guerini, rispondono a Mattarella più che alla segreteria, non bastasse è alla ricerca di una linea che va da un accordo strategico coi 5 Stelle, al ritorno alla vocazione maggioritaria, metà partito vuole andare verso un populismo di sinistra, l’altra metà verso una socialdemocrazia liberale.
Senza che Draghi abbia mosso un dito, in questo momento nessun partito della maggioranza è in grado di dire al Presidente del Consiglio quello che deve o non deve fare: l’agenda è tutta in mano sua e dei ministri tecnici.
Come detto, il Pd non ha un segretario, ma neppure un gruppo dirigente centrale, perché con le sue dimissioni di Zingaretti tutta la segreteria decade.
I 5 Stelle sono vittime di scissioni, espulsioni e delle decisioni di un uomo solo, Beppe Grillo, che la piattaforma è chiamata a ratificare, in un simulacro di democrazia diretta o per meglio dire eterodiretta e neppure la prospettiva di nominare Giuseppe Conte segretario, risolve il problema della linea politica e di chi la decide.
Forza Italia divisa tra l’anima di Mara Carfagna e Toti e il gruppo filo-Lega ha solo da guadagnare dal protrarsi dell’esperienza Draghi, senza la quale perderebbe ruolo e unità.
L’ area di Renzi, Calenda e Bonino non solo ha voluto fortemente Draghi, ma ha bisogno di tempo per trovare unità e consensi, mentre Liberi e Uguali ha salvato Speranza, ma non la sua unità.
Quanto alla Lega, spinta al governo dai suoi elettori, soprattutto del Nord, ha bisogno di tempo per convincere e convincersi del cambio di rotta. Per ora è impegnata con Giorgetti a rappresentare gli interessi dei suoi elettori e con Salvini ad arginare l’avanzata di Giorgia Meloni, un gioco che non potrà durare a lungo, ma che non prevede in nessun modo di disturbare il manovratore. I problemi antichi e quelli lasciati dai governi Conte sono infiniti, ma la situazione consente al premier Draghi di avere coraggio, soprattutto per il bene del Paese. Nel frattempo i partiti dovranno rifondarsi, darsi nuove guide e nuove idee all’altezza delle sfide del secondo decennio del secolo. Questa almeno è la speranza di molti, nella consapevolezza che non si potrà tornare senza gravi rischi a come eravamo prima.
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