Jobs Act e fine del Pd

renzi1 La riforma del lavoro richiesta dall’Europa oltre che dal buon senso, forse non produrrà subito nuovo impiego, ma potrebbe produrre la fine del Pd. Civati e gli ex Cgil come Damiano, Cofferati ed Epifani strillano come aquile, ma non potranno fermare il treno, al massimo appunto abbandonarlo. Una scissione, si dirà, non produce automaticamente la fine del Pd, scissioni a sinistra se ne sono viste a decine e la sinistra non è mai stata forte come ora. E’ la politica pragmatica del premier che cambia la ragione sociale della ditta, siamo passati dallo smacchiamento del giaguaro, agli accordi col giaguaro, dal grido: i giudici hanno sempre ragione, alla giustizia ad orologeria. Renzi non è neo-berlusconiano, ma fa le cose che Berlusconi non ha mai fatto, pur predicandole, mentre il Pd le avversava. Per questo è difficile credere che il Pd sopravviverà, non solo alla riforma del lavoro, ma anche a quella della P.A. e al ridimensionamento del sindacato. Il solo 730 precompilato potrebbe costare ai Caf del sindacato qualcosa come 400 milioni di euro l’anno, per non parlare del taglio dei permessi, migliaia, in particolare nel pubblico e della contrattazione decentrata, che decreterebbe la fine dell’onnipotente ed ipertrofico sindacalismo centrale. La rottura del cordone ombelicale con la triplice e lo spostamento al centro del partito decreteranno inevitabilmente la sua fine per come lo conosciamo ora. Ove ciò non accadesse, sarebbe la fine di Renzi, con effetti ancor più dirompenti. Una terza possibilità non è data. Per questo interessano poco le convulsioni delle Bindi e dei Civati.

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