Intervista a Nicola Rossi. «Il mio ex partito perderà sulle tasse»
L’economista, già parlamentare del Pd, ha pubblicato un saggio sull’aliquota unica. «Le proposte del Pd complicano il sistema fiscale. Gentiloni troppo ottimista: il bilancio non è a posto»
Nicola Rossi, 66 anni, docente di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata, presidente della società di gestione risparmio Symphonia, ex presidente della Banca Popolare di Milano ed ex parlamentare del Pd dimessosi in disaccordo con la linea di partito, è stato tra i primi a formulare una proposta complessiva di riforme per introdurre la flat fax quando era presidente dell’Istituto Bruno Leoni. Ora la riassume in un agile saggio per Marsilio, Flat tax appunto, in cui pone l’aliquota unica al 25 per cento per tutte le principali imposte a partire dall’Irpef, abolisce tasse come Irap, Imu e Tasi, introduce un minimo vitale per nuclei familiari in difficoltà, ridefinisce il finanziamento di alcuni servizi pubblici, che restano gratuiti per la maggior parte dei cittadini e diventano a pagamento per i più abbienti.
Inoltre, la sua Irpef prevede una soglia di esenzione fino a 7mila euro per un single o 11 mila in caso di una coppia, comprende tutti i redditi di proprietà immobiliare e sintetizza il regime delle deduzioni e detrazioni. Per le società di capitali, infine, l’aliquota scende al 25 per cento (oggi è al 28) come per le ditte individuali.
Professore, è il primo a proporre una riforma così completa?
«La mia convinzione è che sia tempo di ripensare profondamente la riforma fiscale del 1973. Già nel 1994 Antonio Martino ha parlato di flat fax e, prima di lui, pure Vincenzo Visco. Io ne ho scritto nel 1996 e riparlato nella fase attuale, ma è ora di farla».
Che differenza c’è con le proposte di Berlusconi e Salvini?
«L’aliquota di Berlusconi è al 23, la mia al 25. Il suo si chiama reddito di dignità, il mio minimo vitale. La vera differenza è nel livello di esenzione: per me 7mila, per loro 12. E io immagino un contributo dei più ricchi per la sanità».
Cosa cambia tra 23 per cento e 25?
«Poco e se ne può discutere studiando i conti pubblici, che purtroppo non sono buoni. Il governo che uscirà dalle elezioni dovrà capirne l’effettivo stato e probabilmente sarà costretto a una manovra aggiuntiva tra 3 e 5 miliardi, perché l’esecutivo guidato da Gentiloni è stato troppo ottimista rispetto alla realtà. Una volta fatta questa verifica si potrà identificare l’aliquota giusta per la flat tax. Ci tengo però a rimarcare che è una riforma fattibile, anche se in qualche anno e tagliando contemporaneamente la spesa pubblica».
Come si corregge l’ingiustizia della flat tax?
«Introducendola si può fare ancora meglio la ridistribuzione dal lato della spesa e non solo dal lato delle tasse. E se i più abbienti pagano un contributo per la sanità o per l’università si semplifica il sistema fiscale».
La flat tax va accompagnata a una riduzione della spesa, ma di cosa esattamente?
«Prendiamo le proposte degli ex commissari al taglio della spesa Cottarelli e Perotti: solo con quelle si trovano 14 dei 27 miliardi che servono per la flat tax. Per esempio, la privatizzazione delle municipalizzate e gli sprechi tra regioni, comuni e prefetture. Il minimo vitale poi permette di tagliare 5 miliardi di spesa assistenziale, che va ai più abbienti».
La flat tax è davvero la principale frusta per la nostra economia?
«È una spinta notevole, soprattutto se introdotta riducendo le tasse e riformando il rapporto spesa/ Pil. L’entità delle risorse che sono canalizzate verso lo Stato, le tasse, o dallo Stato, la spesa, fanno il Pil. E la presenza del pubblico nella nostra economia va ridotta».
Ma una maggioranza debole potrà imporre una simile riforma?
«I grandi cambiamenti spesso avvengono di nascosto, quando monta un’esigenza nella società, e penso che siamo in questa situazione. Certo, serve una certa volontà politica. Il centrodestra dovrebbe pensarci se vincesse. A quel punto, il problema sarebbe: per favore, fatela bene».
Qual è il rischio?
«La transizione: non vanno generati problemi nei conti pubblici e serve una logica complessiva fin dall’inizio».
Lega e M5s potrebbero accordarsi sulla flat tax?
«Mi sembra abbiano posizioni lontane. La proposta del M5s è di passare da cinque aliquote a tre e di introdurre il reddito di cittadinanza, che secondo me è inutile. Il minimo vitale funziona perché sono prima soldi, ma poi voucher contributivi con cui un disoccupato è obbligato a cercarsi un lavoro dal secondo anno. Invece il Pd su questo tema latita del tutto».
Non le pare che il centrosinistra rischi di perdere le elezioni oltre che per la sua scissione anche per l’assenza di una proposta forte da contrapporre alla flat tax?
«È il limite della sua campagna elettorale. Il trattamento fiscale diverso per le famiglie con figli che propone il Pd è un’aggiunta all’esistente, che complica il problema».
E Liberi e uguali?
«Le loro proposte non sono chiare. Curioso che sulle tasse universitarie pensino che le debbano pagare tutti, mentre con la mia flat tax le pagherebbero solo i ricchi».
Lei è stato consigliere economico di D’Alema a Palazzo Chigi. A quei tempi lui l’avrebbe apprezzata la flat tax?
«Allora non era sul tappeto, ma c’era un problema di modernizzazione dell’economia che oggi fatico a vedere affrontato in Liberi uguali».
Forse D’Alema ha dimenticato il suo riformismo di allora?
«Mi pare che Liberi e uguali sia un’iniziativa soprattuto politica e vada valutata in quei termini».
Le proposte del centrosinistra e del M5s si basano di più sulla spesa, e quindi probabilmente sul debito, ma anche la flat tax non rischia di finire a incidere lì?
«Tutto se non si fa bene arriva a pesare sul debito. La mia proposta è di partire simultaneamente con revisione della spesa e del fisco per tre-quattro anni. In una legislatura si può fare».
Chi meglio di lei come ministro per realizzarla?
«Ahahah! Il ministro deve occuparsi anche di cento altre cose».
E se letta questa intervista la chiamasse Berlusconi per proporle il dicastero dell’Economia per realizzare come si deve la flat tax?
«Gli risponderei di pensarci due volte, perché è meglio che i ministri siano dei politici. Non credo ai tecnici e penso che il centrodestra abbia varie persone adatte».
E lei che farà?
«Continuerò a fare il professore e a proporre le mie idee».
In conclusione, da uomo di sinistra a liberista il passo è stato breve?
«Come mia moglie ha sempre cercato di dirmi non è affatto chiaro che io sia mai stato di sinistra. Piuttosto, un liberale che pensava di trovare in quel campo spazio per certe idee, ma credo di essermi sbagliato».
da Libero