Di Pietro Mecarozzi
Una
cosa è certa: finirà male. Anche negli ultimi anni ogniqualvolta una grande
azienda, come Alitalia, Ilva o Autostrade, ha incontrato sulla sua strada la magistratura
e una miope strategia industriale di governo è finita male. Con molta
probabilità, quindi, finirà male anche stavolta.
Di fronte a soluzioni di mercato che si sono volatilizzate, nel caso di
Alitalia, o sono vincolate a un ruolo dello Stato, nel caso dell’Ilva, il
profilo del governo sembra ogni giorno più fiacco. La rinuncia al consorzio per
la compagnia di bandiera da parte dei soggetti industriali chiamati a
risollevarne le sorti è lo specchio di una condizione di inferiorità
dell’attore pubblico nei confronti di quello privato: per sette volte si è
provato a lanciare la cordata Fs, Lufthansa, Atlantia o Delta senza trovare mai
l’incastro giusto, spingendo perfino il premier Giuseppe Conte a riconoscere che al momento
l’esecutivo non ha «una soluzione di mercato a portata di mano».
Sette contrattazioni che vedono uscire illeso chi dall’affare doveva trarre una sorta di indulgenza, ovvero Atlantia. Inserito nel tavolo di confronto a margine delle numerose minacce di revoca delle concessioni, la holding dei Benetton ha prima fatto risollevare i numeri in Borsa, dopo che le ripetute dichiarazioni di caducazione della concessione dell’ottobre scorso avevano fatto perdere alla società un miliardo e 200 milioni di euro di capitalizzazione in soli tre giorni, per poi sbattere un no secco alle condizioni per il salvataggio di Alitalia.
Il ministro Luigi Di Maio ha chiarito che non intende fare sconti, ma la verità è che il governo giallo-rosso è ancora costretto a trattare, in quanto sul tavolo, per quanto ingombro di implicazioni morali, la posta in palio è di circa 20 miliardi, ovvero il valore di indennizzo che il governo dovrebbe sborsare per la revoca della concessione. In aggiunta al fatto che, anche in questa stagione, le casse dello Stato non hanno soldi da investire per nuove costruzioni e ampliamenti, mentre in casa Atlantia la faccenda capitali è pura questione di accordi e investimenti programmati. C’è poi da contare che il governo, in caso nazionalizzazione delle arterie stradali, ha poco potere contrattuale nei confronti dei concessionari e la revoca potrebbe spingerebbe gli investitori, solidali ai crismi del mercato libero e alla concorrenza tra privati, a credere che il settore autostradale possa perdere la remuneratività e il suo fascino di un tempo.
Dopo il no al consorzio segue l’impossibilità, salvo la volontà di un harakiri economico e elettorale, della nazionalizzazione e delle liquidazione di Alitalia (per la prima troppi debiti, per la seconda troppi esuberi)
Dall’altra
parte, Atlantia ha versato nelle casse dello Stato oneri concessori,
nell’ultimo quinquennio, pari
a 453 milioni di euro. E anche
per questo un sigillo del pacchetto Autostrade-Alitalia sarebbe stato il
compromesso ideale, in quanto, tra le tante, proprio la holding dei Benetton
possiede Aeroporto
di Roma, dove la
compagnia di bandiera vale il 29% dei ricavi e porta con sé il 40% del traffico
passeggeri dell’aeroporto di Fiumicino. A quanto pare, però, non sono bastate
le tesi (vedi il carrozzone Iri 2.0) del ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli, e l’Alitalia così come l’Ilva
continuerà a dipendere ancora per un po’ dalle tasche degli italiani.
Il governo si è ritrovato con il cerino in mano e costretto a mettere sul
piatto un prestito ponte dopo l’altro, cioè soldi dei cittadini. Dopo il no al
consorzio segue l’impossibilità, salvo la volontà di un harakiri economico e
elettorale, della nazionalizzazione e delle liquidazione di Alitalia (per la
prima troppi debiti, per la seconda troppi esuberi). Così come all’appello manca un player
industriale in grado di fornire fondi per una ristrutturazione e poi una
vendita in toto. Nonostante
voci interne ipotizzino un’ulteriore strategia: con un solo commissario
straordinario e un manager esterno nelle vesti di direttore generale, così da
raggiungere tre obiettivi in un colpo solo. Uno, evitare la liquidazione della
compagnia; due, smarcarsi da Atlantia; tre, liberare il prestito ponte da 400
milioni di euro per arrivare al closing a fine marzo. Detto questo, tutto porta
a pensare a uno spezzatino in tre aziende. La prima sotto la guida di
Lufthansa, che la trasformerebbe in una sua divisione regionale, una seconda
per l’assistenza a terra e una terza che inglobi gli addetti alla
manutenzione. Il che,
in altre parole, porterebbe Alitalia a essere una subordinata di Lufthansa; non
proprio un trionfo patriottico.
Due partite industriali di peso a cui non si riesce a dare una soluzione, con una giustizia che interviene per supplire alle manchevolezze della politica, senza però avere le idee chiare
Insomma,
Atlantia e Mittal sono il governo. Se non del Paese, perlomeno delle sorti di
due delle realtà più importanti di esso. Due partite industriali di peso a cui non si riesce a
dare una soluzione, con una giustizia che interviene per supplire alle
manchevolezze della politica, senza però avere le idee chiare. La riapertura dell’acciaieria
e del dialogo con la società franco-indiana, per giunta, non hanno avuto nessun
effetto sulle Procure di Milano e Taranto, la prima spinta da ideali di governo
e la seconda da un senso di lotta e rivalsa. Al contrario, gli effetti più
pesanti si sono avuti sulla società e sull’economia, con il Tesoro costretto a
inserire Invitalia, l’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e
lo sviluppo d’impresa, nella contrattazione con Mittal, al quale resterebbe
comunque la maggioranza.
La pistola dalla parte del manico continuano ad averla gli attuali proprietari,
con un affaire
– che si
andrebbe ad aprire nel caso di una newco statale – per la condivisione dei
rischi e quella degli esuberi, che insieme piazzano sulle spalle del governo un
monolite di responsabilità ancor prima di stabilire i giochi. L’Ilva perde circa 2 milioni al
giorno e un
prestito ponte potrebbe tenerla in vita per sei mesi, in attesa di nuovi
acquirenti. D’altra parte, però, la strategia a conduzione pseudo statale per i
pentastellati sarebbe una macchia indelebile se portata a termine: collaborare
all’origine con i vertici di Mittal imputati di reati talmente gravi. Questo
per dire che l’intervento dei giudici è legittimo, ma a margine della storia
fornisce la prova che senza lo scudo penale, introdotto dal Conte 1 e
cancellato dal Conte 2, l’Ilva è ingestibile. Così come, pertanto, è ingestibile una
strategia industriale scritta da un governo e corretta da azienda private.
Da L’Inkiesta
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