L’ex commissario alla spending review scelto da Enrico Letta e giubilato da Matteo Renzi confidò una volta, intervistato da Vittorio Zincone su Sette, che non solo lui non aveva mai fatto politica, ma che negli Anni 70 era «uno di quelli che entravano in classe malgrado ci fossero manifestazioni e contestazioni».
TUTTI LO CITANO. Secchione per vocazione, Cottarelli è il grillo parlante nella campagna elettorale del Paese dei balocchi. A differenza del grillo parlante, però, potrebbe essere chiamato nella stanza dei bottoni anziché finire schiacciato contro un muro. È un paradosso notevole quello per cui più i partiti promettono misure irrealizzabili, più si rivolgono a lui come a una madonna peregrina. Silvio Berlusconi lo ha già fatto ministro senza nemmeno consultarlo, Luigi Di Maio in un’intervista ha detto che il programma di governo del M5S sul contenimento della spesa si basa sui suoi conti, «salvo i tagli per la scuola». Tagli che però nel programma non ci sono e quindi non si capisce bene se Di Maio questo piano l’abbia mai letto
Ogni volta Cottarelli smentisce, precisa, corregge e alla fine confida: sono in molti ad avermi tirato la giacchetta. Tuttavia, «la partecipazione a un’attività di governo richiede la condivisione dei programmi concreti, che non può avvenire che dopo le elezioni», ha scritto in una nota dopo la sparata dell’ex Cavaliere. Se ne parla dopo il 4 marzo insomma, nella piena consapevolezza che le promesse di questi giorni sono parole buttate al vento. In effetti Cottarelli è tra i pochi ad aver preso sul serio (o ha fatto solo finta?) le casette di marzapane costruite dai partiti per concludere che, se davvero si prendessero le misure promesse, ci troveremmo nel 2022 con un debito pubblico tra il 138,4% del Pil (scenario peggiore con il M5s) e il 134,8% (scenario Pd), con l’unica eccezione di +Europa il cui programma farebbe scendere il rapporto al 127%, comunque non un gran miglioramento rispetto all’attuale 132%.
IL FASCINO DEL TECNICO. Il condizionale però è d’obbligo: quei programmi non saranno mai attuati mentre, nella mente degli italiani, Cottarelli diventa sempre più “quello serio”, che non promette la Luna e dà le pagelle dalla cattedra dell’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano, assurta al ruolo di certificatore di ultima istanza. Quello di Cottarelli è, insomma, l’eterno ritorno del tecnico di un Paese che vota Lucignolo ma che alla fine non disdegna di avere al governo Ciampi, Dini, Monti, chiunque basta che non sia passato da un partito e, possibilmente, sia il più lontano possibile dalla loro sguaiatezza, approssimazione, demagogia. Da questo punto di vista, Cottarelli ha il curriculum perfetto: studi economici a Siena, master alla London School of Economics, sei anni in Banca d’Italia, una parentesi all’Eni e poi il volo per Washington, a lavorare per il Fondo Monetario Internazionale (Fmi), dove è rimasto per 25 anni. Nel 2013 lo chiamò Enrico Letta per il ruolo di commissario straordinario alla spending review, poltrona che prima e dopo di lui è stata occupata da Piero Giarda, Roberto Perotti, Enrico Bondi. Seduta scomoda, nessuno ha mai resistito molto e, infine, si è eclissato. Cottarelli è diverso: a Roma rimase un anno, presentò un piano di tagli da 59 miliardi di euro in tre anni, diventò popolare come quello che “vuole tagliare le auto blu” schivando, tra le altre cose, le polemiche sul compenso: 258 mila euro lordi l’anno, che sono molti soldi, ma comunque ben sotto il tetto massimo imposto ai dirigenti pubblici.
AI FERRI CORTI CON RENZI. Con Renzi la convivenza fu burrascosa: il leader del Pd giurò a febbraio del 2014. A luglio i due erano già ai ferri corti e Cottarelli, sul suo blog, sbottò: «Si sta diffondendo la pratica di autorizzare nuove spese indicando che la copertura sarà trovata attraverso future operazioni di revisione della spesa o, in assenza di queste, attraverso tagli lineari delle spese ministeriali». In pratica Cottarelli disse che il governo spendeva i soldi prima ancora di averli risparmiati. Era l’inizio della stagione delle mance, dei bonus a destra e a manca che, in seguito, molti imputarono a Renzi come la fine della sua (breve) stagione riformista.
UN PARAVENTO PER I PARTITI. A ottobre, il commissario lasciò per tornare al Fmi. «Voleva farmi spegnere i lampioni un’ora prima, una follia», disse di lui due mesi dopo Renzi. Non il modo migliore di ricordarlo e, a dirla tutta, nemmeno il più onesto: il grosso scontro fu sulle pensioni, che l’uno voleva sfoltire ai livelli alti, mentre l’altro non voleva si toccassero più. D’altra parte è anche vero che, nell’opinione di molti, “Mister Forbici” è passato come quello che voleva tagliare le auto blu. Voleva fare anche quello, certo, ma era la cosa più indolore. Il fatto è che i partiti, quando parlano di Cottarelli, lo usano come un paravento. Le coperture non ci sono? Adottiamo la spending review, è la risposta standard. Mica lo dicono che non è proprio un’operazione indolore.
Lui sorride ma non si fa mettere nel sacco. Precisa, spiega, twitta tabelle e numeri dal suo Osservatorio dell’Università Cattolica di Milano, dove è arrivato a novembre dell’anno scorso dicendo addio forse per l’ultima volta al Fmi. Fondo monetario che, peraltro, una volta a sinistra era visto come il male e oggi nemmeno più tanto, visto che oramai anche Christine Lagarde lancia messaggi a destra e a manca sulla necessità di sostenere la crescita e ridurre le disuguaglianze.
RIDURRE IL DEBITO, IL SUO PALLINO. La riduzione del debito però resta il pallino di Cottarelli: l’Italia, dice, deve puntare a un avanzo primario del 4% annuo per alleggerire “il macigno” (titolo di un suo libro) che pesa sulle spalle dei cittadini. È un investimento sul futuro, certo, ma significa congelare la spesa pubblica ai valori attuali senza ridurre troppo le entrate fiscali. Non c’è spazio per tagli fantasmagorici alle tasse, nemmeno per grandi spese, che poi è esattamente quello che è scritto in praticamente tutti i programmi elettorali. I partiti un po’ fanno orecchie da mercante, un po’ però lo corteggiano in cerca di quel bollino di affidabilità che sentono sfuggire dalle mani. «La riduzione del debito», disse Cottarelli in un’intervista del 2016 a pagina99, «per me è una grande operazione di riacquisizione dell’indipendenza nazionale», l’unica possibile per evitare nuovi attacchi speculativi. Dello spread, in effetti, un po’ gli italiani si sono dimenticati, anche grazie ai buoni uffici di Mario Draghi alla Bce. E però nulla è per sempre. Nemmeno il quantitative easing e il whatever it takes per salvare la moneta unica.
UN “PROGRAMMA” IN SETTE PUNTI. Intanto, in libreria è arrivato il nuovo libro di Mister Forbici, che però non parla più di tagli e spending review. Si chiama I sette peccati capitali dell’economia italiana (Feltrinelli), che sono «l’evasione fiscale, la corruzione, la troppa burocrazia, la lentezza della giustizia, il crollo demografico, il divario tra Nord e Sud, la difficoltà a convivere con l’euro». Sembra un po’ un abbozzo di programma di governo, già.
Lettera 43
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