Il new deal di Mario Draghi e l’aria nuova per l’Italia

Di Mario Lavia

Quando il presidente del Consiglio ha annunciato l’apertura di 57 cantieri con tanto di date verificabili, non ha firmato un contratto da Bruno Vespa ma ha semplicemente fatto quello che si richiede a chi guida il Paese: dare qualche certezza nell’epoca più segnata dalle incognite che la storia recente ricordi. Poi starà agli italiani autogovernare il processo della riapertura

Mario Draghi ha cercato, pur stretto negli importantissimi annunci sull’inizio della nuova fase delle riaperture, di delineare un razionale percorso di rinascita del Paese. Un new deal italiano che non ha nulla del miracolo berlusconiano e nemmeno delle suggestioni anglizzanti delle Leopolde, ma è qualcosa che già oggi appare più solido.

Quando per esempio il presidente del Consiglio ha annunciato l’apertura di 57 cantieri con tanto di date verificabili, non ha firmato un contratto da Bruno Vespa ma ha semplicemente fatto quello che si richiede a chi guida il Paese: dare qualche certezza nell’epoca più segnata dalle incognite che la storia recente ricordi. E quando ha spiegato ancora una volta che la strada – l’unica strada possibile – è fare debito buono per attivare quella crescita che non solo non alimenterà altro debito, ma anzi consentirà un lento ma possibilissimo rientro, Mario Draghi ha spazzato via in un minuto l’Italia dell’assistenza, dell’improduttività, del poi vediamo. Lo aveva già detto Keynes? Bene, ora è nell’agenda di governo. Non è propaganda.

La pandemia ha cambiato tutto, ecco perché bisogna guardare ai problemi «con gli occhi di oggi, non con quelli di ieri». Visione e pragmatismo: gli ingredienti del prudente ottimismo (solo noi ci sentiamo lo stile di Moro?) che è alla base della road map della riapertura.

Si potrebbe dire che Draghi ha coniugato la prudenza di Roberto Speranza (sempre più blindato) con l’ottimismo – chiamiamolo così – di Matteo Salvini, la cui spinta polemica è stata dunque depotenziata forse a vantaggio di una Giorgia Meloni abile a intestarsi tutti i malcontenti degli italiani, in una condizione tuttavia di un pericoloso isolamento tanto più se l’operazione-riaperture dovesse funzionare e portare consenso al governo.

Questo round si chiude dunque qui. E anche se Draghi ha definito lo stato dei rapporti tra i ministri contrassegnato da una «atmosfera eccellente», il match tra la destra che vuole votare esattamente tra un anno, dopo l’elezione del presidente della Repubblica (proprio Draghi) e il Partito democratico che punta a terminare la legislatura (con un allungamento di un anno della presidenza Mattarella), è destinato a trascinarsi per mesi.

Il Pd, che in quanto tale appare sempre un po’ evanescente malgrado lo sforzo davvero notevole che sta facendo Enrico Letta per restituirgli una vera centralità, ha tutto l’interesse a separare Forza Italia da Salvini-Meloni – significativa l’apertura del segretario del Pd a Berlusconi – ma anche a calmare i bollenti spiriti dello stesso Salvini i cui ministri, secondo quanto ci risulta, con Draghi lavorano meglio di quanto ci si potesse aspettare, e questo vale anche per quelli di Forza Italia.

Chi soffre davvero è la sinistra del Pd che ancora non ha metabolizzato il fallimento di Giuseppe Conte e di tutta la linea di Zingaretti e Bettini fondata sull’asse con un Movimento 5 stelle che nel frattempo è sparito dai radar della politica. Sentitosi tradito – tipico riflesso di una certa sinistra – questo pezzo del Pd peraltro non più egemone nel partito non riesce a vivere il governo Draghi come il suo governo e anzi per certi versi sta accentuando la sua estraneità al nuovo corso, basta leggere cosa dicono Bettini e D’Alema. Ma finché c’è Letta, Mario Draghi può stare tranquillo.

In ogni caso il presidente del Consiglio, uomo politico a tutto tondo, punta a rinsaldare e rendere permanenti il rapporto con i partiti, non come faceva Conte che destinava tutto al caso: il metodo funziona, lo si sta già vedendo con le consultazioni sul Recovery plan. Con l’annuncio della parzialissima riapertura del 26 aprile – forse un certo senso del buon gusto ha evitato che fosse il 25 aprile – si apre dunque una nuova fase. La maggioranza regge e il presidente del Consiglio è più forte. Poi starà agli italiani autogovernare il processo della riapertura. Ma se va bene, l’aria cambia.

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