Durante le ultime primarie del Pd, zio Bersani ed il nipote Renzi, hanno cercato di comunicare il loro pensiero ed il loro diverso programma politico, pur facendo parte, paradossalmente, dello stesso partito, ma spesso hanno commesso degli errori: Renzi è finito con l’apparire un semplice pasdaran dell’agenda Monti; Bersani, invece, ha dimostrato di avere poche idee e per di più confuse; idee esposte attraverso un eloquio retorico ed ampolloso, simile a quello del “Sindaco Peppone” di Guareschi.
Alla fine, Bersani, al ballottaggio, ha vinto, ma i suoi argomenti sono risultati banali e poco convincenti.
Il rottamatore Renzi ha creduto troppo nella magia della parola, fino a correre il rischio di apparire logorroico: contando sulle sue doti di simpatico, quanto frenetico affabulatore, in molti lo hanno percepito come un venditore di enciclopedie o di aspirapolvere a domicilio; in altri casi si è espresso più per slogan che per concetti, slogan sempre uguali e ripetitivi, che sono sembrati imparati a memoria.
Bersani, nel corso delle interviste televisive, è apparso incerto e nebuloso, tanto che, in più occasioni, è stato difficile seguire i suoi ragionamenti e comprenderne il senso. Alla fine ha prevalso negli elettori un’opzione ideologica e fideistica verso quello che resta di uno storico partito, più che la convinzione verso il candidato Bersani.
Il messaggio del nipote Renzi è stato troppo incentrato sul concetto di rottamazione, spesso inteso come un problema generazionale, più che un appello al rinnovamento della classe politica dirigente. Tant’è che gli elettori del Pd che hanno superato i cinquanta, si sono sentiti sminuiti e mortificati per un messaggio che peccava di presunzione e di giovanilismo.
Lo stesso Renzi, all’indomani del ballottaggio che l’ha visto perdente, nel suo incontro con i sostenitori nella Fortezza da Basso, ha riconosciuto: “Io non sono riuscito a togliermi di dosso, fuori della Toscana, l’immagine del ragazzetto”.
Bene ha fatto però Renzi ad invitare Bersani a “parlare all’Italia che non è andata ai gazebo”. In effetti Bersani, esaltato dal risultato del ballottaggio, sembra aver dimenticato che quelle che ha vinto sono le primarie del suo partito e non le elezioni politiche: per quelle c’è ancora tempo. Bersani è stato presentato come l’ultimo baluardo della socialdemocrazia in Italia: in realtà Bersani non sembra ispirarsi alla socialdemocrazia scandinava, ne’ al laburismo anglossassone, ma al socialismo francese, alla Holland, per intenderci; un socialismo impregnato di laicismo e di radicalismo, debole e flessibile sui temi dello stato sociale e del lavoro, forte su quelli dei cosiddetti diritti civili, come il riconoscimento dei matrimoni gay.
Nel suo discorso del dopo ballottaggio Bersani non ha rinunciato alla demagogia affermando: “Qui non c’è l’uomo solo, qui si governa con il popolo”.
Forse temeva di essere scambiato per il dittatore della Corea del Nord Kim Yong-nam. Bersani ha inoltre fatto sapere che si muoverà su due direttrici: una sul piano interno e l’altra per rafforzare la sua immagine all’estero; potrebbe cominciare imparando la lingua inglese, insieme a D’Alema. In fondo, però, tutto questo agitarsi di Bersani e Renzi è apparso poco credibile, quasi come un cinico gioco delle parti, accomunati come sono dal sostegno incondizionato al Governo Monti. C’è da domandarsi che cosa rappresenti davvero questo Pd: un coacervo di posizioni politiche che vanno da Bersani a Renzi, fino a Vendola; posizioni spesso in contrasto fra loro, se non addirittura antitetiche.