In un periodo in cui le vedove dell’ex premier Conte, in particolare Travaglio e Casalino, occupano tuti i canali televisivi, per dire che non è cambiato nulla e che questo governo fa schifo, anche se molti ministri e sottosegretari facevano parte pure del precedente, non è inopportuno tornare a riflettere, sul discorso di insediamento dell’attuale Presidente del Consiglio. Il professor Draghi al suo esordio in Parlamento ha sorpreso tutti con un discorso squisitamente politico. Ha parlato al Paese e pure all’Europa, non nascondendo i problemi e la sfida difficile che l’Italia ha di fronte. Un discorso asciutto, pieno di verità e concretezza della verità, perché la realtà è più dura di quanto si creda. Ora c’è il dolore per i morti, la paura per i contagi che non si fermano, per il lavoro che manca, ma domani ci saranno le macerie da cui ricostruire un’Italia in cui non funziona quasi nulla, in cui il presente rischia di mangiare il futuro, soprattutto dei giovani e delle donne, i più colpiti dalla crisi. Un discorso duro, in cui però ha brillato una luce di speranza, in cui ha disegnato un altro orizzonte, che non si ferma al tempo temiamo breve del suo governo, ma guarda al prossimo decennio. Ha cercato di tenere insieme le urgenze del presente, dai vaccini, il bisogno di una gestione meno approssimativa delle emergenze e delle chiusure, di una più ragionevole gestione degli aiuti, con una visione del futuro, la concretezza e le grandi idee, perché senza una visione chiara della direzione di marcia, non si risolvono neppure i problemi della contingenza. Consapevole che dopo questa “tragedia”, come l’ha definita, non si può tornare tranquillamente ai riti di prima, se così fosse lo schianto sarebbe solo rimandato. Il Paese è come un autobus vecchio e malandato, sul quale si caricano sempre nuovi problemi, nuovi bonus, nuovi egoismi, nuovi privilegi di casta, senza rendersi conto che se non viene sistemato, non uscirà dal suo immobilismo. Occorrono riforme radicali serie, complessive, come quella fiscale, della burocrazia e della giustizia, non bastano pezzi di riforma, che è un modo di far marciare l’autobus legando i pezzi con un filo di ferro. E’ un invito a uscire dalla logica della contrapposizione vuota dell’antipolitica, che poi si trasforma in casta trasformista e inconcludente. Declina una sovranità che si conquista dentro uno schema più largo, quello dell’Europa e dell’alleanza atlantica, consapevole che fuori da quel perimetro, vista la debolezza strutturale e finanziaria, c’è solo il default
Mescola cifre e strategie, la pandemia di oggi si lega alla riforma della sanità, che non è la più bella del mondo, certo è universalistica, ma spesso il diritto te lo devi pagare, contiene ancora larghe sacche di inefficienza e di spreco. Così pure la crisi economica non si risolve solo con incentivi a pioggia, senza un’idea di politica industriale, che vuol dire investire sui settori che possono ripartire e lasciar andare quelli che non ce la faranno, creando le condizioni per la nascita di nuove aziende e nuove professionalità. La novità è nel dettaglio con cui parla della riforma della scuola, con l’attenzione agli istituti tecnici, nel raffronto con gli altri paesi europei, di una riforma organica del fisco, ravvisando il limite degli “interventi parziali dettati dall’urgenza del momento”. Disegna una riforma del mercato del lavoro e delle politiche attive che guardino ai cambiamenti del sistema produttivo e all’effetto disrupture della robotica, delle intelligenze artificiali e dell’e-commerce. Non usa la retorica delle quote rosa e non si riempie la bocca con la parola giovani, disegna invece la necessità di creare una situazione di parità di condizioni competitive tra i generi. E’ un invito al dovere, in un Paese in cui si predicano solo diritti. Il dovere di “fare per loro tutto quello che i nostri nonni e padri fecero per noi, sacrificandosi oltre misura”.
Un forte discorso politico, che chiama i partiti a un recupero della loro vera missione, che non è quella di cercare solo e a ogni costo il consenso, per poi fallire nell’azione di governo, chiamare un commissario “tecnico”, che risolva un po’ di grane, per riprendere poi il solito andazzo. Si sprecano gli aggettivi su questo governo, ma il nuovo premier è chiaro quando dice: “quello che ho l’onore di presiedere è semplicemente il governo del Paese”, in cui “nessuno fa un passo indietro ma un passo avanti nel rispondere alle necessità del paese”. E’ un invito a ricostruire, superando le fragilità che il Covid ha accentuato: dal disastro della pubblica amministrazione al solco tra garantiti e non garantiti, un invito che supera i confini della sua esperienza, che ovviamente è limitata nel tempo e non possiede il dono del miracolo.
Certo, al di là degli applausi di facciata, la sensazione è che i partiti siano tramortiti dal cambio di paradigma, che si attardino nei loro vecchi e fallimentari schemi, che debbano metabolizzare i repentini cambiamenti, come la Lega, o elaborare il lutto per il Conte due, come i 5 Stelle e il Pd, a cui Draghi ricorda che il tempo del potere non può essere “sprecato nella sola preoccupazione di conservarlo”. E’ un discorso forte, che non sappiamo dove ci porterà, però ha acceso la speranza, sappiamo bene che non basta, ma per ora è già molto.
Devi accedere per postare un commento.