Idee per un vero Recovery plan (e per un nuovo governo)

Giovanni Cagnoli

Come alternativa alla bozza del premier Conte, il nuovo piano per la ripresa del Paese dovrebbe concentrarsi sul merito e la responsabilità, sull’efficienza dell’azione amministrativa, fornire nuove opportunità lavorative a giovani e donne e formulare iniziative strutturate per dare un futuro alle nuove generazioni. Un cambiamento che deve partire da un vero leader e un esecutivo composto da professionisti

Delineare un piano Recovery plan alternativo in poche ore è uno sforzo probabilmente in corso in numerosi think tank politici in questi giorni. Il motivo è proprio la modestia della bozza presentata dal governo Conte. E se l’esecutivo fosse davvero coerente con le dichiarazioni, oltre che competente, potrebbe recepire molte indicazioni provenienti dai vari ambiti e tentare una sintesi.

Tra tutte, l’indicazione più significativa è stata quella dell’ex presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, che ha espresso il suo pensiero nella sede del G30, senza generare alcuna risposta o commento da parte dei nostri ministri. Evidenza che suscita più di una perplessità sull’onestà intellettuale delle promesse di “ascolto” del primo ministro Conte.

Credo quindi che non succederà nulla di sostanziale e l’impianto delineato dalla bozza sarà solo marginalmente modificato per tre motivi concomitanti:

  1. Il governo non ha adeguate competenze di analisi economica tali da consentire una sintesi e una modifica sostanziale dell’impianto;

  2. L’ideologia che permea il Partito democratico e, in minore misura, i CinqueStelle è nettamente contraria alla fiducia nell’iniziativa dei privati e delle imprese. Pertanto non si vede perché l’impianto del Piano nazionale di ripresa e resilienza debba discostarsi da uno statalismo pervasivo che lo contraddistingue nella bozza esistente;
  3. L’orizzonte temporale del governo e dei ministri non supera i 18 mesi mentre Mario Draghi ragiona a lungo raggio. Nessuno o quasi degli attuali ministri avrà un futuro politico di alcun tipo dopo le prossime elezioni. I CinqueStelle sono destinati a passare da 300 a 40 parlamentari, e i ministri del Partito democratico, scelti sulla base dell’ossequio alla linea Bettini/D’Alema, saranno molto probabilmente spazzati via di fronte a una forte contestazione quando gli effetti delle misure prese saranno evidenti e assolutamente pessimi per lo sviluppo economico a partire dal secondo semestre 2021.

In entrambi i casi l’unica arma a disposizione per mantenere consenso sono i sussidi a pioggia, che Draghi ha già definito debito cattivo, ma che sono presunti essere moneta elettorale nel breve periodo. Mentre gli investimenti sono debito buono ma non pagano in termini di voti, o così è stato nelle elezioni del 2018.

Ciò che comunque più fa arrabbiare è la visione del cittadino come un assoluto ignorante, che preferisce di gran lunga il sussidio momentaneo e scialacquatore oggi, rispetto all’investimento produttivo domani; che non capisce e non si regola quando va a spendere il cash back invece che barricarsi in casa, che genera problemi al “buon governante” invece che obbedire silenzioso e ossequiente sempre e comunque anche di fronte all’evidenza dell’incompetenza e degli errori.

C’è una specie di pervasivo disprezzo del cittadino elettore a cui vengono comminate prediche (Conte, Arcuri), minacce (Arcuri, Boccia, Galli), paternalistici regali (Di Maio, Conte), vuote e generiche esortazioni (Zingaretti), divieti e limitazioni della libertà ammantati da paterno rigore (Speranza, Galli, Rezza, Ricciardi) o semplicemente idiozie in libertà pur di una comparsata in tv.

Di ben altro spessore sono invece le analisi di Draghi, ma anche di Marco Bentivogli e di Carlo Calenda in merito all’efficacia concreta dei provvedimenti. Soprattutto l’analisi dell’ex presidente della Bce è brutalmente numerica e chiara nelle implicazioni. Un paese con elevato indebitamento deve porsi il problema del sostentamento del debito nel medio termine e questo problema si risolve solo se gli investimenti fatti oggi hanno produttività e ritorno tali da ripagare il debito contratto.

In più, l’inevitabile crisi di solvibilità delle imprese dopo il 2020 deve trovare riscontro in un contesto di protezione del sistema bancario che è la cinghia di trasmissione del credito e quindi dello sviluppo economico. Aggiungo io: in un contesto che vede in caduta rapidissima la velocità di circolazione della moneta, drammaticamente ridotta dalla crisi Covid (caduta esacerbata in modo violento da Comitato tecnico scientifico, virologi, giornalisti, tutti soggetti che ignorano bellamente cosa sia la velocità di circolazione della moneta e la sua importanza fondamentale).

Il rischio che scatti una trappola di liquidità nonostante i tassi a zero o negativi per un periodo indefinitamente lungo è elevatissimo. Saremmo tutti catapultati in un contesto di politica monetaria ormai inefficace e di politica fiscale ormai non più utilizzabile e quindi probabile stagflazione, o peggio depressione. Questi problemi non sono nemmeno sfiorati da parte del governo e dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Gran parte degli interventi delineati, oltre che generici, sono eccellenti in un solo parametro: il dividendo elettorale che deriva dallo slogan “verde”, “digitale”, “equo” e altri aggettivi da convegno. 

Per tentare almeno a riprendere invece gli spunti fondamentali di Mario Draghi, provo a delineare alcuni principi guida da sviluppare con strutture tecniche e di supporto adeguate. 

Lo spirito di fondo

Gli slogan del piano di Recovery potrebbero essere:

  1. premiare il merito e la responsabilità (non siamo tutti uguali, misuriamo i risultati e riconosciamo il merito);
  2. efficienza nell’azione amministrativa (le risorse sono comunque sempre scarse);
  3. dare un’opportunità ai giovani e alle donne (coinvolgiamo gli strati sociali che sono stati penalizzati);
  4. lavorare per i prossimi 10 anni per dare un futuro migliore ai nostri figli (orizzonte temporale medio-lungo).

Il primo slogan è una rivoluzione copernicana rispetto alla storia politica italiana degli ultimi 30 anni e anche al pessimo uno vale uno di recente memoria. Nella pubblica amministrazione, nelle imprese e tra le persone esistono ruoli e risultati differenti e invece che appiattire tutto proviamo a dare meriti a chi porta risultati. L’inversione culturale che ne deriva sarebbe incredibile.

Alcuni esempi per chiarire il concetto:

  1. premi nella pubblica amministrazione a chi porta risultati, a cominciare dalla scuola con i risultati dei test invalsi amministrati con rigore;
  2. merito a chi fa sviluppo e occupazione. L’opposto di stigma sociale perché crei ricchezza. La ricchezza che genera tassazione è una manna dal cielo per lo Stato;
  3. inversione del paradigma con i cittadini. Siamo tutti responsabilizzati dalla fiducia che reciprocamente ci diamo. Chi si comporta male viene sanzionato, anche duramente se necessario. Per il resto il cittadino è protetto e aiutato, non controllato con spirito vessatorio e punitivo. Passare dal tutto è vietato salvo ciò che è permesso, al tutto è permesso salvo ciò che è vietato.

L’efficienza dell’azione amministrativa passa attraverso una rigorosa spending review. Ci sono sprechi evidenti nella spesa dello Stato e non sono più tollerabili. Ma la rivoluzione più profonda è uno sforzo di deburocratizzazione e di revisione dell’impianto amministrativo dello Stato. Servono competenze molto elevate, tempo e leadership per smontare un impianto che palesemente non funziona. Ambizione elevatissima, ma con precedenza assoluta e impellente. Si dovrebbe trovare un tecnico amministrativista di elevatissimo standing personale a cui affidare il compito con un ministero specifico. Da qui costruire una squadra di persone molto determinate in grado di legiferare rapidamente. Su questo tema Sabino Cassese sembra un’eccellenza di livello assoluto.

Giovani e donne, soprattutto al Sud, devono avere al più presto opportunità. Servono politiche specifiche mirate non al sussidio ma al lavoro. Nel breve periodo la creazione di opportunità di lavoro non può essere “comandata” e la riduzione degli oneri sociali non è a mio avviso la soluzione più efficace, anche se certamente aiuta. Bisogna partire dal legare i salari alla produttività, che è un anatema nel panorama italiano e tecnicamente l’unica soluzione con impatto duraturo.

Negare il problema e la relativa soluzione, come per anni è stato fatto, significa perpetuare emigrazione giovanile dal Sud a Nord (o peggio all’estero) e continuare a nascondere la testa sotto la sabbia. Per le donne si devono creare infrastrutture specifiche (in primis asili nido e strutture scolastiche a tempo pieno) e anche una contrattualistica di lavoro part time o smart working molto meglio definita. Su entrambi questi temi in Italia ci sono esperti di standing internazionale e leadership intellettuale come Pietro Ichino e Marco Bentivogli che ritengo sia quasi delittuoso non coinvolgere immediatamente.

Infine, l’orizzonte temporale non può che riflettere il fatto che negli ultimi 25 anni (dall’entrata nell’euro con il governo Prodi, che avrebbe dovuto determinare riforme poi mai nemmeno abbozzate) l’Italia ha accumulato un ritardo di crescita, produttività e, parallelamente, un aumento del debito colossale rispetto agli altri paesi europei. Illusorio quindi lavorare sui prossimi 2 o 3 anni. L’orizzonte deve essere come minimo decennale, così come la fatica, l’impegno e anche il sacrificio necessari per invertire il trend. A forza di ascoltare politici “cicale” o pifferai magici siamo arrivati alla fine delle illusioni.

Servono investimenti mirati, produttività e sviluppo su un orizzonte pluriennale. Se queste scelte non portassero consenso elettorale, come nel 2018 quando pagliacci travestiti da statisti, nullità travestite da ministri e Chance il giardiniere (Peter Sellers in “Oltre il giardino”) travestito da Churchill, hanno vinto le elezioni, nel rispetto della democrazia si accettano le conseguenze. L’esito finale, se le prossime elezioni avessero lo stesso tenore, sarà solo attendere il disfacimento del nostro stato sociale con una crisi molto più amara e una medicina tanto difficile da sopportare quanto inevitabile. Alla fine, la scelta è dei cittadini italiani e va rispettata, ma almeno va prospettata in modo chiaro. 

Alcune idee di merito

Quanto segue è solo una breve lista di idee, che non ha la pretesa né di essere perfetta né tantomeno esaustiva. Molte altre idee eccellenti circolano e sono certamente da aggiungere. La costante deve però essere la misurabilità dei risultati, che è peraltro richiesta in ambito europeo come condizione per erogare i fondi. 

Mi limito ad alcuni esempi, anche se ribadisco che le buone idee sono ben di più:

  1. il tema turismo merita non 3 ma 30 miliardi. Si deve sviluppare rapidamente un piano per lo sviluppo di infrastrutture sui quattro assi fondamentali in cui peraltro in Italia abbiamo eccellenza mondiale: città d’arte, mare e montagna, turismo enogastronomico. L’obiettivo è risalire dal sesto posto per presenza mondiale, dove siamo precipitati per insipienza, e al primo posto come destinazione turistica in Europa nel giro di 5 anni. Basta confrontare la dotazione di bellezza che la creazione del mondo e la storia ci hanno dato rispetto agli altri paesi europei e verificare il numero di presenze turistiche all’anno. C’è da piangere.
  2. sulla sanità servono 36 e non 9 miliardi. C’è il Mes, e va preso subito senza altre perdite di tempo e contorsioni politiche. Così da liberare i 9 miliardi nel Recovery plan per altri utilizzi. Senza Mes i miliardi da spendere sono sempre 36, ma la conseguenza sarebbe ridurre tangibilmente la dotazione del Recovery, che è molto più condizionato del Mes. Sarebbe insensato non prendere il Mes e spendere dal Recovery, e questo è un argomento logico non discutibile nemmeno per Chance il giardiniere. Sarebbe utile anche un confronto tra indicatori di performance e costo tra tutte le strutture regionali. I famosi costi standard che nessuno vuole perché evidenzierebbero chi gestisce bene e chi invece merita di essere mandato a casa.
  3. introdurre un concetto di stimolo di produttività e investimenti privati. Se un’azienda investe (cash però non come capitalizzazione del brand) un euro lo Stato ne garantisce 0,5 (o anche 0,7) come riduzione del carico fiscale. Unica condizione per un miglioramento della produttivit. Se investendo si crea anche occupazione il relief fiscale aumenta.Industria 4.0, inoltre, funziona benissimo, quindi va rafforzata e allargata. Se poi genera più posti di lavoro attraverso assunzioni, meglio ancora. In sintesi, lo Stato facilita gli investimenti dei privati, lasciando ai privati la scelta di cosa ha probabilità di successo. Niente Stato imprenditore (un fallimento storico conclamato), ma Stato facilitatore.
  4. introdurre su progetti infrastrutturali una modalità di investimento pubblico privato snella efficiente e rapida. Servirebbe molto per velocizzare infrastrutture e altri investimenti a lungo ritorno. La percentuale di partecipazione dello Stato può essere variabile, mentre la proprietà dell’infrastruttura è dello Stato e la gestione dei privati. Ci deve essere anche un business plan rigoroso alla base di tutto e immediata sostituzione dei privati affidatari della gestione in caso di inadempienza.A differenza della sciagurata esperienza Autostrade, non si privatizza l’esistente per una cifra risibile, ma si crea il nuovo con capitale di rischio. Condizione sine qua non un tetto massimo espresso come percentuale di ritorno sull’investimento dei privati, idealmente 6% l’anno. Oltre quel rendimento eventuali extraprofitti vengono riversati allo stato.
  5. prevedere una misura che consenta alle banche di sostenere le aziende con crediti già garantiti dallo Stato in modo rapido, efficiente e senza inutili lungaggini di processo. E nel caso di aziende che hanno già avuto accesso alla garanzia statale e non riescono a sopravvivere, si dovrà trasferire immediatamente il credito complessivo (non solo la parte garantita) di questi soggetti economici a una bad bank anche finanziata dallo Stato.L’effetto moltiplicativo sulla capacità di credito delle banche sarebbe sostanziale e, benché questa misura vada armonizzata in ambito europeo, sarebbe molto importante per l’Italia proporla in modo molto esplicito da subito. Le banche non vanno demonizzate, ma solo regolate, in quanto sono fondamentali per finanziare gli investimenti. I cattivi banchieri spesso prestati o conniventi con la politica vanno invece stigmatizzati e se possibile non nominati.
  6. formazione permanente. Il mondo sarà caratterizzato da un’evoluzione rapida della tecnologia: bisogna assicurare modalità di formazione permanente e non burocratica. Ad esempio, si potrebbero studiare contributi per le imprese da erogarsi al superamento di test, amministrati da un ente indipendente, su temi di concreto interesse per le imprese e con forte impatto sulla produttività. In altre parole: impari l’inglese con un test? Lo Stato contribuisce al costo. Impari una tecnica manageriale? Stesso discorso. Una misura di grande impatto sulle persone e sulle imprese.

Temi fondamentali di riforma fuori dal Recovery

Esistono poi quattro temi fondamentali che a mio avviso esulano dal Recovery, ma sono da affrontare. La bozza del Recovery in parte li inserisce, ma così facendo li svilisce perché meritano riflessione attenta e sviluppo ben più articolato:

  1. La riforma fiscale. Su questo tema critico si è visto e letto di tutto e di più. Il tema è complesso e merita riflessione attenta. Lo slogan è facilissimo (progressività ed equità), ma bisogna anche partire dai dati di fatto. Oggi il 5% dei contribuenti e il 3% della popolazione italiana paga il 40% dell’Irpef. Per contro, la metà dei contribuenti non paga sostanzialmente 1 euro di tasse. Non mi sembra una situazione perfetta.
  2. La riforma della giustizia. I temi evocati nella bozza del Recovery sono solo alcuni. Mi pare ne esistano molti altri su cui riflettere. L’obiettivo è la durata dei processi civili e penali, ma anche un criterio di responsabilizzazione dei cittadini (specie quelli che intasano il sistema con pretese di fatto temerarie), e della magistratura che deve essere totalmente indipendente e difesa da ingerenze del potere esecutivo. La stessa magistratura che tuttavia non può essere totalmente immune dalla responsabilità dell’errore, specie se conclamato e pesante, se non altro in termini di carriera. Il principio di responsabilità vale per tutti.
  3. La riforma del lavoro. Smart working, part time ma anche ammortizzatori sociali e difesa del lavoratore e non del posto di lavoro, sono temi irrisolti. Oggi Alitalia, costata al contribuente italiano circa 9 miliardi di euro, impiega circa 10.000 addetti: sono stati spesi quindi 900.000 euro per addetto. Sono del tutto certo che con una cifra molto molto inferiore a quanto speso, a cui si sommano i 3 miliardi gettati nel caminetto dal governo Conte nel 2020 (pari a 300.000 euro ulteriori per dipendente), si sarebbero potuti difendere i lavoratori (molti dei quali avrebbero trovato impiego a costo zero per lo Stato in altre compagnie) e salvaguardare risorse finanziarie preziose.Forse con 150-200mila euro ogni dipendente la salvaguardia per i lavoratori sarebbe stata più che generosa (fin troppo se confrontata con altre situazioni) e le rotte dismesse (con i relativi piloti e assistenti) sarebbero state rilevate da altri operatori che non hanno certo convenienza a fare volare compagnie irlandesi su rotte in Italia, con tutti gli extra costi che ciò comporta.L’Ilva sarà un caso del tutto analogo, con numeri anche peggiori. La demagogia finora utilizzata da alcune forze politiche e dai sindacati in generale va superata con i numeri. Come detto abbiamo per fortuna esperti di chiara fama. Chiediamo loro di proporre soluzioni superando la contrapposizione lavoro/capitale e cercando di introdurre la nuova categoria merito/demerito.
  4. La lotta all’evasione fiscale. Non è accettabile che la fascia di evasione fiscale sia così diffusa. In Italia le aliquote fiscali (e soprattutto contributive) sono ai massimi in Europa e questo dipende dalla notevolissima evasione. Mettere a punto un piano serio, credibile e determinato, individuando le aree di evasione in modo scientifico è più che possibile. Sarebbe anche auspicabile dedicare alla riduzione delle aliquote il 50% di quanto ricavato ogni anno, con accredito in busta paga a dicembre o, per gli autonomi, nella dichiarazione dei redditi dell’anno successivo. Renderebbe il tutto molto popolare nei confronti di chi le tasse le paga sempre e comunque. 

Sono solo alcune idee pensate in poche ore e senza struttura tecnica. Non sono le uniche e forse nemmeno le migliori, ma mi sembrano più adatte a creare le condizioni per uno sviluppo del Paese, della produttività, dell’economia e anche dell’equità, di quelle proposte nella bozza presentata dal Governo Conte.

Il filo conduttore è il riconoscimento del merito in tutti gli ambiti. Il passare da una cultura del “diritto” (allo studio, lavoro, pensione, sanità) a una cultura di “doveri” (tasse, impegno sul lavoro, risultati) associati ai diritti. Premiando il merito (nella scuola, nella pubblica amministrazione, nelle aziende) e non la cittadinanza.

Il tutto inserito in una visione del mondo per nulla biecamente liberista (con o senza cocktail da divano), ma piuttosto all’opposto finalizzata a garantire l’ascensore sociale per chi si impegna, ha talento e ottiene risultati piuttosto che per chi promette cose infattibili, sfrutta l’ignoranza o la memoria breve del prossimo e cavalca il populismo. L’ascensore sociale e la creazione di base imponibile sono gli unici meccanismi per difendere, attraverso la redistribuzione della ricchezza creata, le fasce di popolazione veramente deboli (anziani, disabili o limitatamente abili, temporaneamente disoccupati) che hanno poche o nessuna possibilità di trovare in un mondo ferocemente competitivo il proprio sostentamento. Senza creazione di ricchezza, non c’è difesa dei più deboli.

Ci sono invece legioni di “furbetti” in Italia che prosperano nelle pieghe di un sistema garantista che scambia la garanzia dei più deboli con la protezione dei più furbi. Costoro, molto ben rappresentati nell’attuale governo, mirano a non cambiare nulla perché un sistema invece meritocratico li vedrebbe arretrare in modo tangibile.

Credo perciò che quanto qui descritto non sia solo diverso nel merito, ma anche diverso nelle convinzioni ideologiche rispetto al governo. Il quale non farà proprio nessuno di questi punti e, per diretta conseguenza, penso che debba essere al più presto sostituito con un nuovo esecutivo meno ideologizzato, populista e lontano dalle logiche dello sviluppo. Uno sviluppo economico che diventa invece imperativo categorico dopo il Covid e il debito che abbiamo assunto. 

Serve un governo che faccia sue le parole merito e non solo protezione, lungo termine e non promessa per la prossima elezione, investimento e non sussidio, dovere prima che diritto, crescita, sviluppo e produttività e non garanzia statale, libertà e fiducia nei privati cittadini e non giustizialismo a orologeria. Non è con evidenza assoluta questo governo, e non sarà certo un rimpasto più o meno ampio a cambiare qualcosa. Chi è conscio di godere di privilegi di potere di cui mai più potrà godere in futuro, continua a coniare nuove modalità dilatorie: qualsiasi rimpasto, verifica, cabina di regia o tavolo per le riforme è solo un modo per rimandare il problema, non prendersi alcuna responsabilità e scaricare su altri l’onere di cambiare, anche a costo di rendere la strada del risanamento impossibile o troppo tardiva.

Non c’è più tempo da perdere. Un vero leader non è mai popolare. Lo diventa nel tempo, spesso dopo la sua caduta quando la sua visione si dimostra giusta e lungimirante. Un vero leader anticipa le scelte con una visione e plasma la coscienza collettiva, non subisce il condizionamento della piazza. 

Whatever it takes. 

Da Linkiesta

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