I dossier economici ereditati da Draghi sono frutto di anni di errori (aggravati da Conte)

Di Greta Ardito

Da Alitalia all’ex Ilva al futuro del Monte dei Paschi di Siena: sono numerosi i dossier industriali e finanziari ereditati dal governo Draghi, frutto di anni di ritardi, indecisioni o decisioni sbagliate. E così l’esecutivo non dovrà solo rimettere mano al Recovery Plan in tempi strettissimi, cercando di innescare la miccia della ripresa, ma dovrà anche sbrogliare una serie di nodi altrettanto cruciali per il futuro economico del Paese.

Ex Ilva
Uno di questi, gigantesco, è già da anni sotto gli occhi di tutti: l’ex Ilva, il retaggio di quella politica industriale che a cavallo degli anni Sessanta e Settanta si proponeva di risolvere i problemi dell’occupazione meridionale disseminando il Sud di mega impianti. Con ben poca sensibilità per la tutela dell’ambiente e il rispetto del territorio.

Oggi il presidente del Consiglio si ritrova sul piatto un progetto di nazionalizzazione tutto da costruire ma già firmato: gli accordi presi a dicembre con i vertici della multinazionale siderurgica ArcelorMittal prevedono l’ingresso di Invitalia, agenzia controllata interamente dal ministero dell’Economia e gestita (tra una consegna di vaccini e un’altra) da Domenico Arcuri, nel capitale sociale di AM InvestCo, il ramo di ArcelorMittal che gestisce gli stabilimenti dell’ex Ilva.

L’operazione dovrebbe avvenire in due tranche: un investimento pubblico di 400 milioni nel 2021 e uno successivo di 680 il prossimo anno, che alla fine dei giochi porteranno lo stato a detenere il 60% del capitale dell’acciaieria tarantina.

Un tragitto già lastricato di ritardi: il primo investimento sarebbe dovuto andare in porto entro il 31 gennaio, fatto salvo il via libera dell’Antitrust europeo che è giunto senza intoppi il 29 gennaio. Ma le risorse pubbliche, forse a causa dei tempi di formazione del nuovo governo, ancora non sono state trasferite dal Mef a Invitalia, che dovrà poi procedere alla ricapitalizzazione.

Senza contare la tegola arrivata dalla magistratura: il 13 febbraio il Tar di Lecce ha intimato alla multinazionale anglo-indiana di chiudere l’intera l’area a caldo entro 60 giorni, per via dell’alto potenziale inquinante della fabbrica. E lo spegnimento di altiforni, cokerie, reparto di agglomerazione e acciaierie si trascina dietro circa 10mila lavoratori.

Ora ArcelorMittal dovrà attendere il 13 maggio per la decisione definitiva del Consiglio di Stato, ma gli occhi sono puntati sull’esecutivo, dal quale si attende un provvedimento ad hoc per risolvere la questione una volta per tutte.

Autostrade
Nel frattempo, è in corso la trattativa tra il governo e i Benetton per portare Autostrade sotto il cappello pubblico e toglierla alla famiglia che la controlla da più di vent’anni. Proprio questa settimana la Cassa depositi e prestiti ha recapitato ai vertici di Atlantia (la casa madre di Autostrade) l’offerta vincolante per l’88% di Aspi, estesa al 100% se i soci di minoranza di Atlantia eserciteranno l’opzione di co-vendita. A chiusura (forse?) di una pagina emotivamente provante iniziata con il crollo del ponte Morandi.

Secondo le indiscrezioni, l’offerta dovrebbe valorizzare il 100% di Aspi intorno a 9 miliardi, a conti fatti un assegno di 7,8 miliardi per la società che fa capo ai Benetton. A presentare l’offerta la cordata composta da Cdp – che deterrebbe il 51% del veicolo che acquisirebbe la partecipazione – e i fondi esteri Blackstone e Macquarie con quote paritarie.

Un’offerta che rischia però di essere troppo bassa per le pretese di Atlantia, che proprio ieri ha riunito il consiglio di amministrazione. Probabilmente la proposta non sarà rispedita al mittente, ma di certo il board si prenderà tutto il tempo che serve per fare le sue valutazioni prima di convocare l’assemblea dei soci per la votazione. Con un esito tutt’altro che scontato, che rischia di creare più di un grattacapo al governo Draghi.

Peraltro la chiusura della trattativa è subordinata all’approvazione del nuovo piano economico-finanziario di Aspi, attualmente fermo al ministero dei Trasporti perché finito sotto la lente di Bruxelles, insieme ad altri nodi dell’operazione.

In generale la sensazione è che l’offerta di Cdp sia ancora quella attendista di chi sosta sull’uscio per tenere aperti tutti gli scenari. Compreso quello di un ribaltone, che potrebbe compromettere l’accordo raggiunto a luglio tra Atlantia e il precedente governo sotto la regia dell’ex ministra dei Trasporti Paola De Micheli. Un’intesa raggiunta a stento – sotto la minaccia della revoca della concessione autostradale – che rischia di rimanere scritta sull’acqua.

Monte dei Paschi di Siena
Nessun ribaltone invece per il dossier Montepaschi. Anzi, il governo potrebbe imprimere un’accelerazione al processo di privatizzazione della banca, almeno secondo le prime indicazioni filtrate dal ministero dell’Economia. In base ai termini pattuiti nel 2017 con la Commissione europea, il Tesoro dovrà uscire dal capitale di Siena entro la fine di quest’anno. Una scadenza ben chiara anche al precedente esecutivo che, malgrado le resistenze dei grillini, aveva scelto di rispettare la tabella di marcia.

Già prima di Natale il Tesoro aveva fatto importanti passi avanti sul premio promesso all’eventuale acquirente, arrivando a mettere sul tavolo una dote da quasi 3 miliardi in crediti fiscali. E in queste settimane sarebbe in via di definizione anche uno schema per neutralizzare il rischio legale. L’intero pacchetto di incentivi per agevolare la cessione rappresenta l’aspetto più delicato dell’architettura del piano, perché sotto certe condizioni potrebbe far scattare la contestazione di aiuto di Stato, e dovrà quindi passare sotto la scure della Commissaria dell’Unione alla concorrenza Margrethe Vestager.

Quanto al compratore, per ora Unicredit resta il candidato più gettonato per un’aggregazione, anche se difficilmente si muoverà prima della nomina a ceo di Andrea Orcel prevista per aprile. Ma anche Banco Bpm e Bper potrebbero essere della partita. Tutto pur di evitare a Mps di drenare ancora più risorse del contribuente italiano.

Alitalia
E a proposito di risorse drenate ai contribuenti, il governo Draghi sembra voler confermare il progetto di un «vettore nazionale del trasporto aereo» che nasca dalle ceneri di Alitalia. L’indicazione arriva fresca fresca dal vertice interministeriale tra ministero dello Sviluppo economico, Trasporti e Mef che si è svolto ieri mattina. Un’affermazione piuttosto vaga considerando la drammatica e concretissima crisi di Alitalia, con le casse al lumicino e il pagamento degli stipendi rinviato a lunedì primo marzo.

Si attende dunque la riunione in videoconferenza con Margrethe Vestager prevista per la prossima settimana. Proprio la divisione Concorrenza di Bruxelles aveva già sollevato a gennaio diversi rilievi al piano predisposto dal Conte II per il salvataggio (l’ennesimo) della compagnia di bandiera. Il principale relativo alla mancanza di una vera gara per la cessione delle attività di Alitalia a “Italia Trasporto Aereo” (Ita), la newco pubblica nata con la pancia piena dei 3 miliardi di euro stanziati per la ricapitalizzazione.

Una gara che le sigle sindacali rigettano in tronco, chiedendo di essere convocate urgentemente al tavolo delle trattative. Oltretutto i tempi di gestione del bando di gara non sarebbero brevissimi e farebbero slittare il decollo della newco all’estate. E a quel punto Alitalia avrebbe bisogno secondo il commissario straordinario Giuseppe Leogrande di almeno 200 milioni aggiuntivi di denaro pubblico per non fermare i voli, soldi a cui Vestager si oppone con fermezza. Un cane che si morde la coda insomma.

Al vaglio quindi l’ipotesi di vendere tramite trattativa diretta (senza gara) solo il ramo aviation a Ita, mentre Alitalia sempre in amministrazione straordinaria fornirebbe alla newco i servizi di handling e manutenzione, consentendole di ottenere ricavi a fronte di un abbattimento dei costi operativi. Una soluzione a cui i tecnici dell’Antitrust dell’Unione potrebbero non essere contrari. Ma il tempo stringe con un anno di emergenza Covid alle spalle e il rischio di dover mettere gli aerei a terra sempre più vicino.

Sono quindi acque profonde quelle in cui il governo Draghi ha iniziato a navigare districandosi tra i dossier di politica industriale lasciati aperti, con un’imbarcazione costruita e in parte anche sconquassata dai precedenti esecutivi, e senza una politica industriale chiara a fare da bussola.

Da Linkiesta

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.