Mr. Obama ha vinto nettamente e coloro i quali sembrano rallegrarsene di più sono gli europei.
I tedeschi lo adorano: vorrebbero sottoporre i greci ad una drastica dieta di pane, feta e olive, ma accettano senza problemi la politica espansionistica del presidente USA e della Federal Reserve.
Lo stesso si può dire per il resto degli abitanti del Vecchio Continente: il sogno del primo presidente nero, insomma, continua a resistere.
Tuttavia è bene interrogarsi su quali siano le conseguenze della vittoria di Obama dal punto di vista italiano, anche perché la direzione del suo secondo mandato è tutt’altro che chiara. Partiamo dal primo aspetto di politica americana che deve interessare qualsiasi altro paese, il commercio internazionale. In quest’area Barack è stato oscillante: articoli a favore del libero scambio quando era un semplice intellettuale, discorsi protezionisti durante la campagna elettorale del 2008, con addirittura minacce di rinegoziare il NAFTA, il trattato nordamericano che abbatte le barriere doganali. Il comportamento di Obama presidente è stato altresì non molto lineare.
È pur vero che sono stati firmati tre nuovi trattati di libero scambio tra cui quello molto importante con la Corea del Sud, ma gli obiettivi veramente significativi, vale a dire la Trans-Pacific Partnership, con le nazioni dell’Australasia e il Transatlantic Free Trade Agreement, con l’Unione Europea, son rimasti fermi. Nel frattempo si sono arenate molte trattative con paesi dell’America Latina e sono continuate imperterrite le scaramucce con la Cina, condite, queste ultime, dalla retorica della campagna elettorale sull’outsourcing dei posti di lavoro americani. Si intravede, però, un barlume di speranza. Infatti il commissario europeo al commercio estero, Karel De Gucht, ha dichiarato che si aspetta la luce verde dalla nuova amministrazione Obama per aprire i negoziati formali per un accordo di libero scambio già a partire dall’inizio dell’anno prossimo. Questo sarebbe il miglior dono che il rieletto presidente potrebbe fare all’America e all’Europa. Uno studio del Parlamento Europeo ha stimato che l’abolizione di solo la metà delle barriere non tariffarie tra le due sponde dell’Atlantico porterebbe entro il 2018 ad un aumento del PIL di ben 163 miliardi di euro, un’enormità. Certo, Obama potrebbe trovare difficoltà dal congresso repubblicano, ma ricordiamoci che Bill Clinton si fece approvare al senato l’accordo Nafta con più voti repubblicani che democratici. Bene, si vedrà. L’altro aspetto assai rilevante per l’Italia è quello dell’ormai famoso “fiscal cliff”. Seguendo l’accordo raggiunto tra la camera dei rappresentanti e il presidente alla fine dell’anno scorso, se entro il 31 dicembre potere legislativo e potere esecutivo non raggiungono un’intesa, scatteranno automaticamente nuove tasse e tagli per quasi 700 miliardi di dollari, il 4,3% del PIL americano. Si tratterebbe di una cura da cavallo e per di più attuata con il criterio, tanto aborrito in Italia, delle riduzioni di spese a aumenti di imposte lineari.
Naturalmente il problema non si risolve semplicemente tassando “i ricchi” come vorrebbero i democratici. Ripristinare le aliquote precedenti la riforma fiscale di Bush porterebbe dentro le casse del Tesoro americano 45 miliardi di dollari, pari allo 0,28% del PIL, mentre il deficit del 2012 si aggira sul 7%, vale a dire 1.100 miliardi di dollari! Le soluzioni sono molteplici e potrebbero ripartire da quelle previste dalla commissione bipartisan Simpson-Bowles che abbassava le aliquote ma riduceva le deduzioni fiscali, aumentando quindi di circa 80 miliardi l’anno le entrate fiscali, ma allo stesso tempo raccomandava vigorosi risparmi sul lato della spesa pubblica (3.200 miliardi in 10 anni) con l’obbiettivo di riportare il deficit pubblico sotto controllo (a circa il 2% del PIL) e ridurre il debito pubblico che ormai anche in USA è superiore al 100% del PIL.
A prescindere dai numeri, perché la soluzione che verrà data al problema è importante anche per l’Italia?
Per 3 buoni motivi. Il primo è quasi banale: se gli USA rimangono avvolti in una spirale di debito e perdono la fiducia dei mercati , ciò potrebbe innestare un’ulteriore crisi globale e non si sa proprio come ne usciremmo.
Il secondo è che una soluzione alla Simpson-Bowles darebbe un segnale importante a tutti i krugmaniti del Belpaese che brandiscono gli irriverenti incitamenti al deficit spending propugnati dal Nobel Paul Krugman come panacea anche dei problemi nostrani. Adottandola, Obama lascerebbe invece la pressione fiscale federale ai minimi storici degli ultimi 50 anni (circa il 20% del PIL) e ridurrebbe il peso dello Stato.
La terza è che per il resto del mondo è un bene che gli USA assorbano meno liquidità attraverso i loro Treasury bond. A prescindere dai rischi sistemici di cui al primo punto, si tratta di fondi sottratti agli investimenti produttivi del settore privato pure all’estero. Hope and Change, Speranza e Cambiamento sono stati gli slogan della campagna di Obama. Ecco, speriamo che si cambi in fretta l’immobilismo che ha caratterizzato, non sempre per colpa sua, i primi 4 anni di mandato su problemi essenziali come commercio e deficit.
http://www.fermareildeclino.it/articolo/hope-and-change-che-non-siano-solo-parole
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