Esistono meriti senza carriera, ma non esistono carriere senza merito, fossero anche solo quello di essere paraculi, merito diffuso ed efficace, quanto disprezzato. Non ci riferiamo ovviamente a Graziano Delrio, uno dei politici reggiani che ha fatto più strada nell’arena nazionale, perfino più di padri e madri della Repubblica. All’epoca del Partito Popolare, guidato da Castagnetti e ridotto in terra reggiana a percentuali tra il 4% alle europee ed il 6% alle amministrative, il giovane Delrio diventa consigliere comunale, presentando come credenziali il suo appartenere alla parrocchia di S Pellegrino, culla del dossettismo, di cui il nostro era attivo fedele, impegnato in varie attività, tra cui quella di allenatore di calcio per i ragazzi. Come consigliere si mise in luce per quelle che sono le sue doti più scoperte, il buon senso, la rotondità dorotea e l’immagine di medico ricercatore e buon padre di numerosa famiglia. Con l’accordo politico tra gli eredi della Dc e quelli del Pci, con sindaca la Spaggiari, il nostro non divenne nè vice-sindaco, nè assessore, posizioni occupate dal professor Renzo Boni e da Giuseppe Davoli. La sua carriera avrebbe potuto finire lì, all’interno del gioco politico del comune capoluogo, se alle successive regionali, l’allora leader emergente del Partito Popolare, il Presidente della Provincia, Roberto Ruini, non avesse deciso di contrapporsi al candidato di Castagnetti, Marco Barbieri e la scelta cadde ancora una volta sulla ieratica figura di Delrio. Si trattò di uno scontro generazionale tra Ruini e Castagnetti, il primo vinse la prova delle preferenze e Delrio fu eletto, Ruini non ebbe però la voglia di portare fino in fondo lo scontro con il padre nobile Castagnetti, spaccando il partito e costringendo Delrio alla scelta di campo. Rapido a capire le situazioni, il futuro ministro vide che Ruini aveva commesso un errore che gli sarebbe stato fatale e traslocò alla corte di Castagnetti, lavorando all’eliminazione politica del presidente della Provincia che per età e qualità, sarebbe comunque stato un ostacolo. Così il nostro, per accordi politici nazionali si trovò ad essere eletto sindaco di una delle città più rosse d’Europa. Spinto sullo scranno di primo cittadino, non dal consenso, i voti li avevano gli ex comunisti, non dall’esperienza, non era mai stato amministratore, ma dall’abilità di trovarsi al posto giusto e di non avere nemici, nascondendo bene le ambizioni, sotto l’aspetto ascetico. Però nella gestione del potere rivelò subito una certa dimestichezza: l’intera segreteria dell’onorevole Castagnetti traslocò in Comune, l’ex segretario Spadoni come assessore e il segretario Battini, assieme alla segretaria nella segreteria del sindaco. Valorizzò come direttore del Comune, Bonaretti, che come i succitati , lo segue da allora nelle successive scalate. Portò poi alla direzione dell’ufficio urbanistico del Comune, Maria Sergio, sostituendo la responsabile dell’epoca, si trattava della moglie del capogruppo dei Ds, Vecchi, poi divenuto sindaco al posto di Delrio. La sua sindacatura non impresse una svolta alla Città, neppure si accorse che la N’drangheta aveva messo radici profonde, certo la impresse ad Agac, oggi Iren, con la rapida rimozione dell’Ad. Cantarelli, compagno della Spaggiari. Da allora suoi uomini di fiducia hanno imperversato nell’ utility, fino al crollo amministrativo del Pd, ma ancora restano in sella, nonostante le vittorie dei grillini a Torino e del centro- destra a Genova. Da sindaco, il Partito Popolare lo spinse alla presidenza dell’ Anci, dove non ebbe scrupoli ad essere eletto, pardon chiamato, coi voti del centro -destra, lasciando al palo i candidati di D’Alema: Fassino ed Emiliano. Sotto la sua presidenza, la riscossione dei tributi dei comuni fu vinta da Alfredo Romeo, sostenitore del giornale della Margherita, Europa, e poi delle fondazioni renziane, ora tra i protagonisti dell’indagine Consip. Sia detto con chiarezza; Delrio è persona specchiata, solo a volte ha fatto qualche scelta un po’ sfortunata e siccome non esita ad imputare ad altri responsabilità, non solo soggettive, ma anche oggettive, qualche colpa dovrebbe prendersela. Arrivato il ciclone Renzi, il nostro ha atteso che la sua vittoria fosse certa, per emigrare alla Leopolda e incassare il gessato di Ministro con Letta. Poi sono venuti gli anni della grande euforia, del 40% alle europee, del calcio in culo a Enrico Letta, delle ambizioni non più nascoste, del tentativo, si dice, di diventare ministro del Tesoro nel governo Renzi, respinto da Napolitano. Dopo Che Guevara sarebbe stato l’unico medico ad arrivare a tanto e, a differenza di Guevara non si sarebbe dimesso,fino al tempo in cui si è lasciato trapelare, nell’inner circle, la possibilità dell’ascesa al Colle più alto, prima dell’elezione di Mattarella. Poi ,finita la luna di miele con Renzi, perchè il nostro pensava di poter guidare il Tartarino di Firenze, venne il trasferimento da sottosegretario a Palazzo Chigi, al Ministero dei Trasporti, dove i concessionari autostradali hanno continuato ad avere rinnovi di concessioni, aumenti di pedaggi e pochi controlli. Ovviamente anche in questo caso responsabilità solo oggettive, ma il nostro aveva già colto I segni del crollo del renzismo, li espresse in un famoso fuori onda e si riposizionò in mezzo, ecco la grande scuola democristiana: con Renzi, ma non renziano, aperto al dialogo, senza però esporsi a scelte chiare e questa rotondità lo ha portato oggi a capogruppo del Pd. Ora aspetta la chiamata a segretario, lui non si propone, troppo volgare, gli unti del Signore vengono chiamati e accettano il potere con sofferenza, lo portano come un cilicio, a cominciare dai grandi banchieri. Ora aspetta che il ducetto di Rignano sia fatto a pezzi, per tornare al governo con il centro- destra o, possibilmente con i 5 Stelle, come vorrebbero i poteri marci, che condizionano da sempre il Pd. Poi questi grillini hanno bisogno di patronage interni e internazionali: chi meglio del Pd può offrirli, un Pd che non è post ideologico, ma post tutto, non ha più bagagli storici, non ha futuro, ma solo un presente, il potere, magari attraverso la foglia di fico di un governo del Presidente. Tornando a Delrio, una carriera che ha visto solo salite, senza grandi cose fatte e questo è un grande merito, se vuoi durare devi evitare errori e chi fa, sbaglia. Solo una volta il nostro si è fatto prendere la mano, nella riforma delle Province, un vero disastro, ma nessuno se lo ricorda più e poi siamo sicuri che la riforma l’abbia fatta lui o non uno che gli somigliava?