Giorgia Meloni e la voglia di cambiare il Paese

Per fare un bilancio dell’operato del governo Meloni, quattro mesi sono un tempo troppo limitato, ma alcune cose si possono comunque osservare. La Presidente o il Presidente, come vuole essere chiamata, merita una larga sufficienza, in primo luogo per come riesce a tenere unita una maggioranza in cui i partiti minori scalpitano, o dovrei dire a volte scalciano, poi per essersi mantenuta nel solco del governo Draghi, sia nella legge di bilancio, sia in politica estera, sia nel proseguire il piano delle riforme. Su quest’ultimo punto sconta maggiori difficoltà, anche per l’inesperienza ( Nordio) e la pochezza (Sangiuliano)  di alcuni ministri. L’opposizione e diversi organi d’ informazione sono particolarmente aggressivi nel giudicare il suo operato e sovente le chiedono di risolvere subito problemi che la sinistra ha lasciato marcire nei suoi lunghi anni di governo. Se si voleva abolire la Bossi- Fini, introdurre lo ius soli o il matrimonio gay, c’è stato tutto il tempo di farlo e non si può chiederlo alla Meloni che è stata votata su un programma che non prevedeva simili riforme. Per converso: Alitalia forse in via di risoluzione, Ilva e Mps sono patate bollenti che sono costate all’erario, cioè a noi, decine di miliardi e che la sinistra e non solo, non ha risolto, ma come per Mps è stata la stessa sinistra a creare il problema. In attesa di conoscere la linea della nuova segretaria del Pd, prendiamo atto che quella della Meloni va verso un riformismo non sexy, ma necessario. Favorire la famiglia e combattere la denatalità è assolutamente necessario per tenere in piedi il Paese e per fare questo è indispensabile che si realizzino le condizioni previste dal PNNR: digitalizzazione, che favorisce il lavoro a distanza e la settimana corta, asili nido, scuola, per formare lavoratori qualificati, anche per i nuovi indirizzi economici, regolazione dei flussi migratori per colmare i vuoti occupazionali. Soprattutto però serve, come si è visto in Francia, la leva fiscale. Sono trascorsi esattamente cinquant’anni dall’ultima vera, grande riforma del sistema tributario italiano. Un sistema, oggi, caratterizzato da un’alta pressione fiscale e un’eccessiva burocrazia, inoltre si accerta, ma non si riscuote. Il disegno di legge delega di riforma fiscale ha obiettivi ambiziosi e in gran parte condivisibili, ma richiede, per la sua attuazione, risorse finanziarie.

Per quanto riguarda la riduzione della pressione fiscale sulle persone fisiche, la riforma dell’Irpef, confermando il principio costituzionale della progressività, riduce aliquote e scaglioni di reddito dagli attuali quattro a tre; equipara la no tax area per i lavoratori dipendenti e i pensionati; revisiona le agevolazioni fiscali (oggi 626 voci), con l’ipotesi di riconoscerle per scaglioni di reddito, estende la flat tax incrementale anche ai lavoratori dipendenti. Se realizzata, sarà una medaglia sul petto della Premier, soprattutto se si abbandoneranno i sogni di Flat tax generalizzata, favorendo invece le famiglie numerose con forti sussidi, come appunto in Francia. Il sistema italiano è già duale essendo operative numerose flat tax sulle rendite

L’entrata in vigore, dal 1° gennaio 2024, della Global minimum tax (ossia, l’imposta minima del 15% che si applicherà sulle multinazionali), esige una revisione anche dell’Ires (l’imposta sulle società), al fine di rendere il sistema fiscale italiano più attrattivo per le società estere, favorendo per questa strada l’aumento occupazionale e quello dei salari. Positive numerose semplificazioni, ma occorrerebbe il coraggio, se vogliamo salvare il Welfare, di aumentare le tasse sulle rendite, mentre Elly, la grande affabulatrice, è persa nei suoi “ sì però”, versione aggiornata del veltroniano “ma anche”. Ci rendiamo conto di non poter chiedere alla Meloni di correre più di così.

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