Nella sfida per il voto emiliano-romagnolo, molte condizioni che portarono alla inaspettata vittoria al primo turno di Giancarlo Muzzarelli, potrebbero ripetersi nella corsa alla conquista del governo regionale
Al netto di un sistema
elettorale diverso (in regione non c’è doppio turno e vince subito il
presidente che ha più voti), sono tante le dinamiche che accomunano le elezioni
regionali che si terranno domenica prossima e quelle amministrative del maggio
scorso che hanno portato alla vittoria, inaspettata al primo turno, a Modena,
di Giancarlo Muzzarelli. Così come di altri sindaci di sinistra, in comuni dove
sulla carta, con il voto contestuale delle europee, sarebbe potuto essere il
centro-destra a vincere.
Dinamiche che sfuggono ai sondaggi, ma capaci di valere di più, alla prova del
voto, anche dei programmi (che nessuno legge), e delle promesse elettorali,
quasi mai mantenute. Dinamiche legate al grande potere che Bonaccini è stato
chiamato a gestire dal PD cinque anni fa e che ha, da politico di vecchia
guardia e vecchia scuola, saputo gestire e coltivare.
Dinamiche che Bonaccini, uno degli ultimi testimoni di una scuola di partito
che formava politici di professione destinati, come lui, ad esserlo a vita,
senza bisogno di lavorare nel mondo privato, conosce bene. E ha utilizzato.
Lavorando 5 anni non per governare con una visione futura, ma per continuare a
gestire quel potere ed i suoi centri nevralgici. Tutti guidati o presieduti da
nominati, scelti e comunque fedeli alla linea. Dalle cooperative di costruzioni
e dell’abitare, alle Avap, dalle onlus sociali alle banche d’affari e alle
fondazioni, agli enti di gestione di secondo e terzo livello dei servizi
pubblici.
Un sistema che funziona non perché fa le cose che promette in campagna
elettorale, ma perchè anche nel non farle (anzi spesso proprio nel non farle),
comunque le gestisce, distribuendo appalti, consulenze per progetti che non
verranno mai realizzati, e generando così consenso. Controllato. Dove i sempre
fedeli alla linea fatta di quel sottobosco di sindaci di professione, ex
sindaci trombati, presidenti di coop fallite, di funzionari sindacali oltreché
di giornalisti ben schierati e sindacalizzati, hanno sempre trovato un posto
sicuro ed un paracadute, se non una promozione o un posto in lista od in
qualche consiglio di amministrazione, o gabinetto amministrativo, quando quel
posto non c’era più.
Comunque e sempre una collocazione certa e ben remunerata, soprattutto
con soldi pubblici, fino alla pensione.
Tanti ne vediamo ancora, addirittura chiamati (come nel caso delle commissioni
dei bandi pubblici), anche a decidere del futuro altrui, di chi da quel sistema
vuole stare fuori. E, grazie a loro, alle dirette dipendenze dell’organismo
politico e di governo, continueranno a starne fuori, A costo di fare la fame,
anche solo (e non è poco), per non svendere la dignità.
Un potere economico e politico che in decenni di governi monocolore e mancanza
alternanza, si è fatto sistema. Perché gestire il potere non significa
governare ma consente di governare a lungo. Anche se si è privi di una visione,
giusta o sbagliata che sia, condivisibile o meno che sia. Gestire potere,
gestire nomine. Basta pensare che le autostrade mai realizzate in Emilia Romagna
e ancora al centro del dibattito politico (Bretella Campogalliano Sassuolo e la
Cispadana), hanno, da più di dieci anni, Società che alla presidenza hanno due
noti esponenti del partitone modenese, entrambi già presidenti della provincia.
Pagati da anni per presidere società di gestione di autostrade che non
esistono. Questo è il potere politico che vince anche se non governa. Anche se
non costruisce futuro.
Se così non fosse, se il territorio fosse stato realmente governato con una
visione politica ed una prospettiva, non solo gestito nei suoi centri di potere
con misure e tempi dettati solamente dalle elezioni, oggi avremmo le strade
promesse, che non ci sono, oggi avremmo un piano efficace per la tutela del
territorio e del rischio idrogeologico, che non c’è, oggi avremmo quel patto
per clima che Bonaccini, dopo anni di piani fallimentari, ha rilanciato dal
palco di piazza Matteotti. E potremo parlare di prevenzione, non di costante
emergenza. Anche nella tutela del territorio, mai così a rischio esondazione.
Se così non fosse l’Emilia Romagna da terra delle cooperative sane non sarebbe
diventata terra delle cooperative spurie e del lavoro precario, dello
sfruttamento della manodopera straniera ed autoctona, terra che non offre
opportunità a giovani laureati spinti ad emigrare in massa in altri paesi dopo
avere frequentato un ateneo, quello modenese, cresciuto come una cattedrale nel
deserto. In una città che non offre non solo alloggi accessibili e moderni, ma
nemmeno i servizi di trasporto pubblico di livello essenziale minimo per
potersi spostare con mezzi alternativi all’auto. Magari di sera. E andatelo a
dire al Presidente Seta, altro nominato, che anziché battere i pugni sul tavolo
della Regione per svecchiare un parco mezzi antiquato ed inquinante, non ha
mancato di partecipare (e lo abbiamo visto), ad ogni evento elettorale di
Bonaccini. Perché anche questo è sistema. Un sistema che per due decenni ha
raccontato di avere gli anticorpi contro la mafia per poi accorgersi con
Aemilia che quegli anticorpi erano serviti contro l’Ndrangheta come un aspirina
contro un cancro.
Ciò che in Emilia-Romagna sostanzia la gestione esclusiva e politica del
potere, è talmente pervasivo e talmente radicato che il rischio è di non
vederlo più. O meglio di non vedere altro. Soprattutto quando questo altro non
c’è o non è ben rappresentato e conosciuto. In Emilia-Romagna settantanni di
governi senza alternanza hanno creato un sistema di potere che si autolimenta.
Che non governa, ma gestisce e finanzia quel mondo vastissimo di persone e cose
che alle elezioni risponde sempre presente al grande manovratore. Con un
consenso netto, interessato, che è tale al di là dei fallimenti, delle
previsioni, dei sondaggi, delle cose non fatte, delle promesse non mantenute.
Perché impaurito dalla prospettiva di perdere (votando altro), privilegi, e
soldi, tanti soldi. Quelli che Bonaccini, facendo perfettamente il suo lavoro
di gestore del potere, ha elargito da Presidente della Regione (legittimamente,
si intende), in direzioni, soggetti e politiche ben specifiche. Compresa la
lobby gay che ha voluto ed ottenuto una legge su misura. Per finanziare e
finanziarsi. Verso un mondo che alle elezioni risponderà anche questa volta
presente. E che, in mancanza di alternativa strutturata e altrettando di
sistema, da parte del centro destra, consentirà molto probabilmente a
Bonaccini, di vincere se non facile, senza tanti problemi. Come, al di la delle
previsioni, fece Muzzarelli a Modena. Che vinse, pur senza governare lo
sviluppo di una città rimasta a livello sociale, urbanistico, infrastrutturale,
del degrado e della sicurezza urbana, ferma, per non dire peggio. Altro che
odio e arrivano i barbari.
Consorzi di associazioni e cooperative di volontariato sociale, enti benefici,
fondazioni, banche d’affari, rete di polisportive, di associazioni sportive.
Lobby. Di potere. Grandi, enormi, senza concorrenza perchè tali da avere solo
loro dimensioni, strutte e caratteristiche per vincere, senza rivali, gli
appalti. Chiuse, autoreferenziali, controllate, e finanziate. Dal governo PD.
Spesso costruite ed alimentate con denaro pubblico non per risolvere ma per
gestire problemi e bisogni. Con progetti dai nomi anche altisonanti, che
richiamano il bello, il buono, l’altruismo. Dove lavorano i soliti noti. Nel
campo dei servizi sociali, dell’immigrazione, del disagio della difesa delle
donne e degli immigrati, con servizi e progetti pagati a peso d’oro. Che forse,
allora, è anche meglio che ci sia, il bisogno. Proprio per poterlo gestire. E
camparci sopra. Contestualmente, controllando il consenso, attraverso i propri
nominati nelle posizioni apicali e nei CDA. Che domenica vedremo schierati
anche nei seggi. A controllare, legittimamente, il voto. Organizzati, come in
quelle centinaia di centri di potere che, chiunque può verificarlo, Bonaccini
ha bene coltivato in cinque anni. Riempiendoli di soldi pubblici,
legittimamente, soprattutto nell’ultimo anno. Dodici mesi in cui la home – page
del sito web della regione si è trasformata in un volantino elettorale
dell’uomo forte al comando, che già rifletteva ciò che sarebbe esploso ad un
anno dalle elezioni: finanziamenti a pioggia. Centro per centro. Consenso. Che
Bonaccini ha alimentato, appunto, gestendo il potere, controllandolo, pur senza
governare. Facendo bene il suo mestiere, quello che il partito gli ha detto di
fare e gli ha insegnato a fare, negli anni. E che lui ha saputo fare. Da quando
era segretario provinciale della FGCI, consigliere ed assessore comunale, a
Modena. Venti anni fa, a promettere quei progetti di riqualificazione urbana
che ancora non ci sono (qualcuno si ricorda dell’ex diurno di piazza Mazzini?)
Bonaccini, in questo
senso, ha finito la campagna elettorale sufficiente per vincere, due mesi fa,
quando la Borgonzoni, di fatto ancora sconosciuta fuori dai confini bolognesi,
stava per iniziarla. Bonaccini, in quel momento, aveva già dato garanzie al suo
mondo, a tutto il suo mondo. E non solo. Girando davvero in lungo ed in largo
la regione, da Presidente in carica. Adottando, di fronte alla debolezza del
suo partito (capace di togliergli anzichè portargli voti), e di quella della
candidata avversaria, l’unica strategia possibile. Puntare tutto sul piano
personale, mettendosi il cappello dell’uomo forte, che ha in mano la
situazione, cancellando ogni traccia (compreso il colore), del suo partito.
Consapevole che con la crisi del PD e la parallela rinascita e crescita della
Lega diventata alle Europee primo partito anche in Emilia – Romagna, la sfida
non si sarebbe vinta sul terreno delle liste e dei partiti, ma dei candidati
presidente. Come Muzzarelli la vinse a Modena come sindaco. Terreno sul quale
Bonaccini si sente forte. Consapevole di potere avere, su questo piano, un
ulteriore vantaggio, legato al voto disgiunto, che consente di
votare per una lista e contestualmente un candidato presidente diverso da
quello sostenuto dalla lista stessa. Che detta così sembra cucita addosso a
Bonaccini. ‘Votate me anche se non votate il PD’. Soluzione perfetta (e non a
caso lui dal palco di piazza Matteotti lo ha ribadito citando due consiglieri
grillini), anche per i malpancisti ed i delusi del movimento cinque stelle che
pur di fronte alla corsa autonoma decisa da Rousseau, potranno con una mano
votare il giallo e dall’altro votare il governatore diventato verde. Una
soluzione di compromesso, una confort zone politica, comoda anche per molti
imprenditori che si fidano il giusto del governatore uscente, non perché non si
fidano degli avversari ma perchè semplicemente, non li hanno conosciuti. E che
sia così si è avuto conferma dai rumors dei candidati stessi, oltre che dagli
endorsement nemmeno malcelati da parte di Confindustria o dai silenzi
elettorali di altre associazioni di categoria, già posizionate da tempo, senza
bisogno di finti incontri elettorali con i candidati, se non chiesti da questi
ultimi.
Un voto disgiunto che potrebbe coinvolgere molte più persone e professionisti
di quelle previste. Serene nel potere servirsi di una soluzione che consente di
non tradire il proprio partito, e allo stesso tempo sostenere il candidato
preferito. Che mai come quest’anno, vista la crisi del partitone, potrebbero
non combaciare.
Poi c’è l’alternativa,
costruita tardi e, come a Modena, senza struttura. Perché nonostante la forza
numerica della Lega ed il ciclone Salvini al quale si è aggiunto il sorriso
rassicurante anche di fronte agli attacchi sessisti della Borgonzoni, il
centrodestra, in Emilia-Romagna, non è ancora riuscito a strutturarsi come
forza organica e di sistema, con un progetto forte, di lungo respiro e
alternativo al blocco PCI-PDS e DS nei suoi collegamenti organici e funzionali
al mondo sindacale e cooperativo ed imprenditoriale. Costruito in questi ultimi
anni in cui anche le amministrazioni comunali di centro destra erano via via
aumentate. Capace di offire, anche a quei centri di potere economico e sociale,
l’immagine di una possibile compagine di governo in grado di guidare la regione
senza provocare terremoti. Ed il presentarsi uniti alle elezioni, anche con
persone di grande esperienza politica ed amministrativa, forti di potere
proporre modelli di governo come quello della Lombardia, del Veneto e, da poco,
del Friuli Venezia Giulia, è importante, ma non basta.
Se qualcosa, in queste elezioni, dovesse davvero cambiare, non sarebbe tutto
merito del centro destra, e nemmeno della frammentazione della sinistra, anzi.
Lo sarebbe per il venire meno, da qualche parte, di piccole fette del sistema
di potere capaci, con il loro anche impercettibile crollo di fare cadere il
tutto. Come quel quadro del Novecento di Baricco che in quel momento cade e non
si sa perché. Come quella pedina alla base di un domino che da sola è in grado
di fare crollare una piramide da migliaia di pezzi. Giornate di lavoro
disintegrate in pochi istanti. Perchè solo un elemento ha ceduto.
Queste elezioni non ci mostreranno la forza dell’alternativa al governo
esistente, come le sardine non hanno dimostrato una forza in più e diversa che
vada oltre quel vecchio pensiero di una parte della sinistra che vive solo
della delegittimazione dell’avversario politico, e di pensieri di retroguardia
svuotati dalla storia, ma ci mostreranno solo se il punto di rottura di quel
sistema è arrivato.