Le vicende del colosso immobiliare sull’orlo del default hanno mandato sotto stress Hong Kong. Secondo Salato, responsabile del Sud Europa di Neuberger Bergman, non si può star fuori dalla Cina. Gli analisti cercano di capire se Pechino, con le sue continue restrizioni, stia imboccando la strada della recessione
di Elena Dal Maso
L’Hang Seng sta perdendo con il colosso Evergrande che cede il 7,8% a 2,59 dollari locali. La maggior controllata del gruppo immobiliare, appesantito di 305 miliardi di dollari di debiti, Hengda Real Estate Group, ha chiesto oggi di sospendere le negoziazioni delle sue obbligazioni societarie dopo il taglio del rating da parte della maggiore agenzia cinese.
China Chengxin International ha comunicato al gruppo il declassamento del debito ad A da AA, spiegando che sia i rating delle obbligazioni sia quelli dell’emittente sono stati inseriti in una lista di controllo in vista di ulteriori bocciature. Ieri il governo ha informato le banche che la prossima settimana Evergrande non sarà in grado di onorare gli interessi sui debiti spingendo S&P a tagliare il giudizio di due notch a CC da CCC, citando liquidità e accesso ai finanziamenti in “grave diminuzione”.
Eppure, spiega a milanofinanza.it, Alberto Salato, responsabile dell’Italia e del Sud Europa di Neuberger Berman, gruppo americano con asset per oltre 430 miliardi di dollari, “non si può restare fuori dalla Cina, non ha senso finanziario. È il secondo emittente al mondo di debito”. Neuberger Bergman ha investito oltre 25 miliardi di dollari nel debito dei Paesi emergenti, Cina compresa, “lo facciamo con specialisti che lavorano in loco. Sapevamo da tre anni che Evergrande era in difficoltà, non siamo stati colti di sorpresa”, aggiunge Salato.
Secondo dati elaborati da Neuberger Bergman, gli Usa sono il primo Paese al mondo per esposizione debitoria, 42.400 miliardi di dollari su 21.400 miliardi di Pil. I T bond rendono in media lo 0,7%. La Cina, invece, a fronte di 14.300 miliardi di dollari di prodotto interno loro, ha 15.000 miliardi di debito che rende in media il 3,1%. E in gran parte sono emissioni governative.
Il settore immobiliare cinese rappresenta circa il 30% del prodotto interno lordo. Per Travis Lundy, un analista indipendente specializzato in situazioni speciali citato dagli economisti di Bloomberg, la Cina si sta trovando in una situazione più complessa di quanto si fosse visto negli Stati Uniti prima della crisi finanziaria del 2008 e prima che in Giappone scoppiasse la bolla immobiliare. Riequilibrare un settore così importante senza causare danni eccessivi all’economia in generale “sarà inevitabilmente complicato”, scrive Lundy.
I dati economici di agosto, pubblicati ieri, indicano grosse difficoltà nel settore immobiliare, con le vendite nazionali di immobili in calo del 19,7% su base annua, il dato più significativo da aprile 2020. La crescita dei prezzi delle case e degli investimenti immobiliari è rallentata, mentre l’avvio di nuovi lavori è sceso del 3,2% nel periodo gennaio-agosto rispetto a un anno prima. La crisi è stata innescata dal governo, che sta attuando un nuovo piano quinquennale con lo scopo di rendere l’accesso alla ricchezza più equo fra le persone. E questo ha colpito direttamente il settore immobiliare, con i grandi sviluppatori che si sono esposti troppo a leva negli ultimi dieci anni per poter costruire in continuazione.
Mark Williams, capo economista sull’Asia per conto di Capital Economics, società di advisory e ricerca con sede a Londra, ha spiegato al Wsj che “le autorità cinesi stanno cercando di gestire la quantità di leva finanziaria tra gli sviluppatori e non esiste un modo indolore per farlo”. Ora devono percorrere un sentiero stretto per imporre la riduzione dell’indebitamento mantenendo stabile il sistema finanziario, ha aggiunto l’analista. “Se spingono troppo forte sull’acceleratore, l’effetto può diventare destabilizzante”, ha aggiunto.
La repressione della proprietà potrebbe rivelarsi “un momento Volcker cinese”, ha scritto il capo economista cinese di Nomura, Ting Lu, in un report, facendo riferimento agli aumenti dei tassi di interesse introdotti per schiacciare l’inflazione che però provocarono la recessione negli Usa nei primi anni ’80, all’epoca in cui Paul Volcker era il governatore della Federal Reserve. Nel caso della Cina, Lu ha scritto che Pechino sembra disposta a sacrificare una certa stabilità di crescita per raggiungere i suoi obiettivi a lungo termine, “tra cui la riduzione della disuguaglianza, l’aumento del tasso di natalità e il taglio della sua dipendenza dalla tecnologia straniera”.
Il margine di profitto lordo medio degli sviluppatori cinesi monitorato da Goldman Sachs è diminuito drasticamente nella prima metà di quest’anno, di 4,6 punti percentuali a circa il 22%. Secondo Morgan Stanley, da gennaio a metà agosto, gli sviluppatori sono risultati inadempienti per 6,2 miliardi di dollari di debito high yield, il valore più alto rispetto ai dodici anni precedenti messi insieme. E Moody’s, che ha recentemente abbassato le prospettive sul settore a negativo, prevede che le vendite contratte in tutto il settore potrebbero diminuire fino al 5% nei prossimi sei-dodici mesi.
La crisi del settore immobiliare si sta già allargando alle banche. “Non abbiamo visto un livello così alto di prestiti inesigibili da più di un decennio”, ha notato Shujin Chen, analista di Jefferies. All’Industrial and Commercial Bank of China, per esempio, a fine giugno aveva quasi il 4,3% dei prestiti immobiliari in sofferenza rispetto a circa il 2,3% di sei mesi prima, quasi un raddoppio in tempi molto stretti. il settore del real estate costituisce circa il 7% di tutti i debiti del gruppo ICBC, la più grande banca commerciale cinese per valore di mercato. Milano Finanza
Devi accedere per postare un commento.