L’Italia, come è noto, vive una realtà istituzionale regionale molto diversificata : cinque Regioni a statuto speciale (che neanche Renzi vuol pareggiare con le altre) e 15 regioni a statuto ordinario; in tutto 20 Regioni che hanno raggiunto un livello di costi non più sostenibile dal bilancio nazionale.Siamo di fronte ad una congerie di competenze accumulate in maniera confusa e progressiva: dai decreti delega che, dal 1977, hanno affidato alle regioni molte competenze amministrative, alle caotiche funzioni relative al controllo del territorio, ripartite e spesso rimpallate tra regioni, province e comuni, sino al decentramento delle leggi Bassanini e alla modifica del Titolo V della Costituzione con l’invenzione dell’elezione diretta del presidente (chiamato impropriamente “governatore”) e delle competenze cosiddette concorrenti, fonti del caos permanente dei ricorsi presso la Corte Costituzionale.
E’ questa la triste realtà in cui versa il nostro regionalismo permanendo l’ormai incomprensibile, iniqua e anti storica differenziazione tra regioni a statuto ordinario e regioni a statuto speciale. Ed anche un sovraccarico di competenze che poi in effeti non hanno saputo gestire. Si pensi, solo per fare un esempio, che quasi tutte le Regioni (speciali e ordinarie), hanno una sede di rappresentanza presso la UE a Bruxelles e addirittura persino a Roma !!!Non sappiano se i nuovi consiglieri regionali, pieni di entusiasmo, ma spesso con poca esperienza amministrativa, sanno o si rendano conto di queste, ad essere buoni, chiamerei “anomalie “ della nostra struttura operativa dell’amministrazione regionale.
Temo che questa consapevolezza non c’è l’abbia nemmeno il neo-presidente Bonaccini, almeno a sentire quello che ha detto di recente, ancor prima della presentazione del programma di legislatura, a Casa Cervi di Campegine, cioè che le province sono da chiudere velocemente (e questo è ovvio), occorre invece passare, adirittura entro due anni, alle “ aree vaste “. Una denominazione peggiore non la si poteva trovare, è un gergo tecnico per addetti ai lavori, anche se la “ virile “ promessa di farle, senza studiarci umilmente e realmente su, è tipica del suo mentore, il piè veloce fiorentino.
In fondo , su questi temi delicati e complessi, dimostra maggior saggezza il presidente della “smagrita “ provincia di Reggio Emilia Gianmaria Manghi. Hai giornali locali ha detto chiaro e tondo : calma e gesso, signor presidente Bonaccini ! Intanto guardiamo di razionalizzare le risorse e le competenze incerte, poi penseremo ad un disegno – però di tipo europeo- che va oltre l’ipotesi di piccole fusioni (ammucchiate) fra vicini. Chissà come sarà felice e contento il primo presidente di queste nuove “aree vaste “ pensate dal Bonaccini. Speriamo che la bruttezza della denominazione , che dice poco sul piano istituzionale, alla fine non corrisponda alla confusione delle competenze e alla ingovernabilità della gestione. Cioè fare semplicemente quattro “mucchi” dei territori collocati lungo la via Emilia: Piacenza con Parma, Reggio con Modena, Bologna, forse con Ferrara, e le restanti provincie romagnole –Forli-Rimini-Ravenna- non dice nulla e non risolve nulla. Siamo a livello di battute da bar.E’ la semplice giustapposizione di territori confinanti, una sforbiciata sulla carta geografica. Senza considerare più attentamente una serie di parametri di “ buon governo “ delle aree vaste : cioè le relazioni fra i territori metropolitani e quelli non, le connessioni delle reti, i vettori culturali, le integrazioni dei sistemi economici con il dato demografico. Tutti intrecci che, ci pare evidente, non si risolvono solo ed esclusivamente entro i vecchi confini geo-amministrativi dell’ Emilia-Romagna ( direttrice est-ovest) ma invece possono trovare soluzioni più appropriate soprattutto superando i confini nostrani ed aprirsi a rapporti più stretti con le regioni confinanti (direttrice nord-sud).
Infatti il tema vero del futuro non è tanto fare l’unificazione delle province nella stessa regione, ma fare le macro regioni, un vero ed efficace ridisegno dei sistemi territoriali, come la Fondazione Agnelli aveva evidenziato a fine anni ’80,come risultavano dagli studi del prof. Miglio (che non era becero federalista) e come recenti e serie ricerche, ad esempio l’UrbanPromo “Sviluppo del territorio e beni comuni “ curato dal CAIRE Urbanistica, hanno ri-messo all’attenzione della più avvertita classe politica, sia in Italia che in Europa. Forse più che area vasta (quanto? come?) , suggerirei al Presidente della Giunta, che le quattro “cosidette “aree vaste, petrebbero chiamarsi meglio “dipartimenti “, secondo una tradizione napoleonica mai sopita nella cultura francese. Cosi avremmo a riferimento dei nomi geografici e storici , da tutti conosciuti, bacini territoriali come il Dipartimento del Taro, quello del Secchia, quello del Reno e quello del Rubicone o simili. Ma con questa ipotesi oltre al fascino della storia non si va.
Speriamo che con la smania dell’annuncio a tutti i costi di riforme, poi fatte male e a metà, non succeda a Bonaccini quello è successo a Delrio – nell’ancora fresco Governo Monti , a voler dare per cancellato le province con una riforma pasticciata, di trovarsi poi , come era inevitabile, in un ginepraio di norme giuridiche inestricabili. Infatti ancora oggi i nuovi amministratori provinciali, non conoscono le loro effettive competenze e come dovranno governare i loro rapporti verso l’alto (Regioni) e verso il basso (Comuni).