Ad ogni elezione la prima domanda che tutti fanno è chi ha vinto. Questa volta la risposta è facile: ha vinto Giorgia Meloni ed hanno perso, chi più chi meno, tutti gli altri. Più che Fratelli d’Italia, la crescita di 20 punti premia proprio Giorgia Meloni, mentre Salvini perde quasi la metà dei voti rispetto alle precedenti elezioni e Forza Italia passa dal 14 all’8%. Perdono oltre la metà dei voti i Cinque Stelle, nonostante i toni trionfali, e paradossalmente il Pd di Letta mantiene a livello percentuale le posizioni, ma esce sconfitto politicamente, mentre Lega e Forza Italia trovano motivi di conforto nella vittoria della coalizione e nei numerosi seggi ottenuti nella quota maggioritaria. Realizza un discreto punto di partenza Calenda, ma nulla più. In queste elezioni però vi sono diverse cose importanti: in primo luogo vi è una coalizione autosufficiente, non accadeva dal 2008, quando vinse sempre il centro-destra, a guida Berlusconi. Successivamente, da Monti a Draghi, il Pd ha quasi sempre governato, senza vincere le elezioni, come del resto accaduto ai 5 Stelle, nell’ultima legislatura. In secondo luogo, la Meloni segna un punto di svolta non solo generazionale, infatti Salvini e Di Maio dovettero affidarsi a Conte per la Presidenza del Consiglio, ma addirittura storico, se verrà incaricata da Mattarella. Si tratterebbe della prima donna a raggiungere quel traguardo non da cooptata, ma avendolo conquistato attraverso un percorso politico. Questi sono i fatti non negabili. Per quanto riguarda le conseguenze di questo terremoto politico, il Pd si appresta a bruciare l’ennesimo segretario, Letta ha sbagliato a non allearsi, ma i suoi accusatori dovrebbero sapere bene che prima di scegliere le alleanze, bisogna avere una linea chiara e un certo numero di affinità, come bene o (spesso) male ha mostrato il centro-destra. Una cosa è allearsi con Calenda ed un’altra allearsi con Conte. Una cosa è una prospettiva riformista, un’altra è un percorso meridional- populista, che si esalta per aver preso il 67% dei voti a Scampia e che predica una cultura della decrescita, accompagnata a forme di assistenzialismo insostenibili. Ora la Meloni potrà anche non piacere a molti, ma va attesa alla prova dei fatti, che non saranno semplici. Più delle opposizioni o di alleati indeboliti, dovrà misurarsi con una realtà molto complessa: la realizzazione del Pnnr che occuperà tutta la legislatura, in un Paese che si lamenta del prezzo del gas, ma non vuole i rigassificatori e che ferma le trivelle e dove i tempi di realizzazione delle opere sono biblici. L’arrivo di una recessione che riducendo il Pil farà crescere la pressione del debito e renderà sempre più difficili scostamenti di bilancio, mentre aumenta il disagio sociale. Dovrà accantonare l’idea di potercela fare senza un forte raccordo con l’Europa e dovrà concentrare le risorse sulla riduzione del cuneo e sugli investimenti, per mantenere e creare lavoro. L’unica che non ha votato il governo Draghi sarà chiamata a proseguire ed accelerare la sua opera, altro non è dato. Dicono sia determinata e “furba”, c’è da augurarsi che lo sia e che segua di Draghi anche il metodo, ascolti e poi decida, magari ricorrendo se necessario alla fiducia. Sebbene ridotte nei numeri, le camere presentano gli stessi protagonisti che non hanno dato finora grandi prove. Dice che nel formare il governo premierà il merito e non sostituirà il deep state ereditato dai governi precedenti. Sulla prima questione bene, mentre sulla seconda occorrerebbe una rivoluzione. Il nostro non è un serio deep state, un insieme di caste. Parte tra molti dubbi, che sempre accompagnano le leadership nuove ed extra-sistema, ma è interesse del Paese che faccia bene. Mi pare che sia meno volubile di Conte e Salvini e questo è già un buon viatico.
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