È ufficiale, il Pd si sta suicidando

 Di Giulio Scranno

“Partito senza popolo”. Provate a googlare queste tre semplici parole e i risultati non vi lasceranno sorpresi: nelle prime cinque pagine (non siamo andati oltre, lo confessiamo) viene citato, nove volte su dieci, il Pd. È questo lo stato d’animo con cui il maggior partito della sinistra europea (fino alla prossima primavera) si sta avvicinando ad ampie falcate verso il suicidio finale: il congresso e le relative primarie. Quella che poteva essere l’occasione per una rifondazione, si trasformerà (si è già trasformata, in realtà) nell’ennesima, estenuante, resa dei conti tra correnti e correntine, capibastone sempre più stanchi e spuntati, peones preoccupati per il loro mutuo milionario, tifosi che si massacrano sui social e poi vanno a fare l’aperitivo in centro. Il tutto con sondaggi sempre più drammatici, che fotografano l’impossibilità del Pd di rappresentare un’alternativa a Lega e Cinque Stelle, nonostante i due movimenti di governo stiano facendo di tutto per agevolare il compito all’opposizione.

Ma quando un partito ha perso il contatto con la realtà in maniera così evidente, è difficile pensare di poter convincere l’elettorato a votarlo. Quindi il Pd ha deciso di concentrare tutte le sue attenzioni in ciò in cui non ha mai avuto rivali: autodistruggersi. Tre candidati principali in campo (probabilmente), oltre ad un gruppetto di candidati minori, per prendere la guida del partito e condurlo alle elezioni europee più importanti della storia. Nicola Zingaretti, il primo ad ufficializzare la sua corsa, Marco Minniti, che dovrebbe farlo in settimana, Maurizio Martina, l’uomo che si è caricato il partito sulle spalle dopo il disastro del 4 marzo. Un convitato di pietra: Matteo Renzi, che non ha mai veramente lasciato la guida del partito (comandando a bacchetta la corrente più numerosa al suo interno, soprattutto nei gruppi parlamentari), e che sta facendo letteralmente di tutto per far saltare il banco.

La situazione è tragicomica. Zingaretti, Minniti e Martina – al di là di qualche differenza spinta in maniera caricaturale dai rispettivi fan – sono dei candidati che non possono essere considerati così agli antipodi. Al primo viene accusato di voler rifare i Ds e a aprire il dialogo con i Cinque Stelle. Al secondo di aver spianato la strada a Salvini, con politiche disumane sui migranti. Al terzo un certo grado di opportunismo. Tutto questo nonostante Zingaretti abbia più volte smentito di volere un accordo con i grillini, Minniti abbia sempre parlato di sicurezza e integrazione come di due concetti inseparabili, Martina abbia fatto ciò che doveva fare per far sopravvivere il Pd alla disfatta elettorale. Eppure si è scelto di alimentare strumentalmente queste differenze, invece di trovare un’intesa che possa portare i dem a guidare quel listone anti-sovranista che il 56% dei loro elettori ha detto di desiderare in vista del voto europeo.

Invece nulla, nessuno fa un passo indietro. E si rischia così di precipitare verso una situazione paradossale, anch’essa già fotografata da tutti sondaggisti: nessuno dei tre candidati raggiunge il 50 per centro alle primarie, a decidere chi diventerà segretario sarà l’assemblea nazionale. Inutile dire che a quel punto, quel che resta del Pd, sarà in mano alle correnti. E il tutto diventerà un’ultima, disperata, corsa ad accaparrarsi quelle poche rendite di un potere che ormai non c’è più. Con un epilogo che sembra già scritto, anche perché già percorso da altri soggetti politici in passato, come il Psi post-Craxi. Cespugli in uscita dal Pd. Ad andare bene, lo scenario che potrebbe profilarsi, sarebbe quello di un partito che si divide in due: da una parte i renziani che vanno con Forza Italia a formare un partito di centro liberale, alla Macron; dall’altra il corpaccione del partito che si sposta a sinistra, tentando di dialogare con l’ala anti-governista dei Cinque Stelle. Forse c’è chi, addirittura, si potrebbe ricordare che esistono le politiche ambientali, dopo i successi dei Verdi in giro per tutta Europa. Ma potrebbe anche andare peggio.

Chi sicuramente non sta lavorando per l’unità è Matteo Renzi, che poi è anche la causa principale di quel che sta succedendo oggi. A qualche anno di distanza, si può dire con relativa certezza che il Pd non ha retto all’urto renziano. E che lo stesso ex sindaco di Firenze non ha retto la sfida di cambiare (in meglio) il Pd. Anzi, l’ha praticamente distrutto, sia politicamente, sia economicamente, sia a livello di percezione sociale.

Quel che succede oggi è il frutto di dieci anni di scelte sbagliate, da Veltroni in poi, e di due anni, gli ultimi, di corto circuito totale. Dalla campagna referendaria in poi non si contano i fallimenti, gli scontri inutili, le occasioni perse, la mancanza di una linea politica condivisa, l’incapacità cronica di saper parlare alla gente, l’inguaribile arroganza, il pressappochismo gestionale e amministrativo. E chi più ne ha più ne metta. L’autoimplosione è iniziata da tempo. E vedere Renzi, ancora oggi, parlare di “fuoco amico” come unica ragione della sconfitta, tirare bordate ai compagni, riesumare il mantra morto e sepolto della rottamazione, lavorare scientificamente per far fallire qualsiasi ipotesi di segreteria che non dipenda direttamente da lui, fa la stessa tristezza di vedere ora il codazzo di politica residuale, una volta adorante e disposto a fare qualsiasi cosa per entrare nelle grazie del Giglio Magico, voltare le spalle al vecchio “capo” per cercare nuovi lidi.

Ciò che nessuno al Pd (e tra coloro che il Pd l’hanno abbandonato per cercare fortuna altrove, trovando solo delusioni ancora peggiori) ha capito è che quei lidi non esistono più. Sono stati travolti dall’ondata autoflagellatoria di un partito incapace di guardare oltre il proprio naso e che, forse per l’ultima volta, sta scrivendo l’ennesima pagina buia di una storia troppo brutta per essere vera.

 

Da: Linkiesta

 

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