Contrordine compagni del business, il brainstorming è una fregatura.

images1Nell’atttuale temperie aziendalista uno dei mantra più inflazionati è che il coinvolgimento dei collaboratori/dipendenti sia la maniera migliore per valorizzarne e aumentarne il rendimento, l’adesione all’obiettivo del comune gioco di squadra.

Tradotta in prassi, la ricerca alla spinta motivazionale sfocia anche nella fissa del lavoro in team.

Ci sono aziende che mandano gruppi di dipendenti a fare rafting scendendo da indiavolate rapide in dodici su un gommone, per imparare a lavorare insieme, a sacrificarsi l’uno per l’altro, a mettere in comune le rispettive creatività e risorse.

Il brainstorming è una delle declinazioni di questo convincimento diffuso, nell’idea che la soluzione migliore possa sempre saltar fuori da uno sparare a raffica delle soluzioni in gruppo, finché, con un lavoro prettamente quantitativo, non ne esca l’intuizione geniale che farà scoprire la prossima killer application del secolo.

Qualche sospetto viene però: sarà capitato a molti di trovarsi a proporre un progetto o un’idea a un tavolo nel quale il grande capo dell’azienda, spesso un padre-padrone carismatico, ha riunito il direttore marketing, il direttore commerciale, la segretaria, agenti della rete vendita, il nipotino e la suocera, oltre al commercialista e l’avvocato ufficiale dell’impresa, con infine in fondo al tavolo anche qualcuno del call center. Sotto il tavolo scodinzola il cagnolino di famiglia.

Il risultato è che quando un professionista di un determinato campo, mettiamo la Comunicazione, si mette a sottoporre all’amena truppa il proprio piano, cominciano gli interventi più strampalati da parte di chi del campo specifico non conosce un’emerita cippa ma, andando a naso con fervore e fedeltà, cerca di dimostrare al “capo” e agli altri il suo saper essere performante in ogni occasione e a mostrare la propria qualità professionale. “Mi ha chiamato a questo tavolo e devo dimostrare di saper dire la mia”.

Il sottoscritto ricorda, fra altre, con devastante freschezza un’evenienza di questo tipo nella quale un agente in deficit di vendite per incapacità proprie tentava in tutti i modi di addebitare la colpa del suo scarso rendimento ai limiti presunti di un depliant esplicativo del prodotto, senza riuscire a indicare però in esso neanche uno degli aspetti tecnicamente errati che a suo dire sarebbero stati la causa prima della sua infruttuosità di venditore. Davanti al titolare era l’occasione per riabilitarsi attaccando animosamente fino alla maleducazione come in un tallkshow, ma senza argomenti logici e competenza reale, il lavoro altrui. In realtà, recenti e meno recenti studi come quelli di Mihaly Csikszentmihalyi e Gregory Feist, o Hans Eysenck, psicologi, attestano come spesso le personalità più genialmente creative tendano all’introversione e soffrano il lavoro di gruppo, idolatrato nelle aziende moderne, sempre più strutturate come open space nei quali nessuno ha modo di lavorare in concentrata solitudine.

Il lavoro di gruppo causa la dissipazione di molte energie che si potrebbero focalizzare sul compito e gli obiettivi, perché la psiche viene assalita dalla necessità di gestire aspetti sociali delle relazioni, sessuali, dinamiche interpersonali storicizzate nell’azienda, gerarchie, rivalità, “code di paglia”, ecc. Il luogo comune del lavoro di gruppo dilaga anche nella formazione. Negli Stati Uniti si arriva a disporre nelle aule i banchi a isolotto, le materie si insegnano e rielaborano sempre in gruppo fino al punto che all’alunno viene proibito di fare domande che non siano la domanda che tutti i componenti del team vorrebbero fare. La condivisione esasperata aumenta esponenzialmente la deconcentrazione, gli errori, il tempo di realizzazione dei compiti, l’originalità delle intuizioni.

Non vogliamo qui demonizzare una dimensione operativa che è certamente propria dell’essere umano, in quanto animale sociale. Spesso l’individuo geniale è proprio colui che sa ricomporre le tessere di un puzzle suggerite dagli altri in un’architettura inedita e innovativa. Ma i due aspetti vanno calibrati e l’importanza dell’attività individuale va assolutamente recuperata. Studi statistici attestano inequivocabilmente la sua importanza. Il brainstorming, inventato dal guru pubblicitario Alex Osborn e divenuto di moda negli anni Cinquanta, fa acqua da tutte le parti, anche perché proprio in quanto animale sociale, nell’uomo taluni individui psicologicamente gregari tendono a rimanere in secondo piano e a delegare gli aspetti più enucleanti della creatività e del decisionismo ai leader.

Un neuroscienziato della Emory University, Gregory Berns, ha scoperto che quando qualcuno assume una posizione diversa da quella dominante, del gruppo, attiva l’amigdala, un componente del sistema limbico dell’encefalo che interviene nella paura di essere respinti dal gruppo sociale in cui operiamo. Ciò significa che se un creativo non unisce alla propria genialità anche una sufficiente vocazione alla leadership, rischia di non riuscire a esprimere la propria capacità d’intuito per il timore di non riuscire a gestire quello che in gergo tecnico viene detto il “dolore dell’indipendenza”.

Interessante eccezione che conferma la regola è il tasso di creatività che emerge dal lavoro di gruppo strutturato lungo le reti telematiche, nelle quali le singole individualità hanno modo di operare in connessione con gli altri, ma offrendo il proprio apporto da una postazione che sta al di qua di uno schermo, in uno spazio psichico privato nel quale riescono a sfoderare il proprio potenziale creativo prima di esporlo al gruppo con cui devono interagire.

D’altra parte il simbolo stesso della creatività umana sono gli artisti, che per definizione amano lavorare in assoluta privacy e talvolta, conosciuti di persona, mostrano temperamenti tutt’altro che empatici e socialmente vocati a onta della formidabile bellezza e originalità delle proprie opere.

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