L’avvocato del popolo a Montecitorio ha fatto il Masaniello sul salario minimo e ha ridato una parvenza di vita ai Cinquestelle (parlandone da vivi)
Cantano i grilli ad agosto, e più forte che mai, sovrastando amici e avversari. Ed è inutile negarlo: i pascoliani queruli trilli di grilli di Giuseppe Conte, or ora ritornato massimamente grillino, si sentono più forte di tutto, della pasticciona retorica della destra, dell’arzigogolare del compianto Terzo polo, persino del blues di lotta di Elly Schlein. Non c’è partita.
Il fatto è che tanto più scorretto è l’argomentare dell’avvocato tanto più questo fa presa e resta nella memoria, il che del resto da che mondo è mondo fa parte del baule del peggior populismo.
Dunque ieri a Montecitorio la destra ha scaraventato la palla in tribuna e ha rinviato l’esame della legge sul salario minimo presentata dalle opposizioni (tranne Italia Viva): brutta cosa, perché della questione si parla da mesi e dunque di tempo per avanzare una propria idea la maggioranza ce l’ha avuto eccome.
E tuttavia si era partiti con la volontà di bocciare la legge delle opposizioni ma, visti i sondaggi, si è finito per allungare i tempi tenendo aperta la questione: le opposizioni protestano ma sarebbe stato peggio se la legge fosse stata già fulminata.
Sicché nel dibattito sono intervenuti uno dopo l’altra, prima Elly Schlein, ferma, corretta, sobria. Subito dopo ha parlato Masaniello, cioè Conte. Che ha fatto il Grillo dei bei tempi. Giocando a un gioco facile facile: non date i soldi a chi ne ha bisogno e li aumentate «ai politici». Urlando poi: «Non ve lo permetteremo!».
Ora, se uno mette a confronto i due discorsi, quello di Giuseppi resta nella testa, quello di Elly molto meno. Il suo blues un po’ lamentoso è più elegante, ma la tammurriata neogrillina è più forte. Non è una questione di tecnica oratoria. È una questione culturale e morale. Alla fine di questo lungo round sul salario minimo Conte è riuscito a togliere il tema al Partito democratico: il governo scappa, lui scippa. «Il Movimento 5 stelle propone il salario minimo da dieci anni», ha detto. Peccato che avendo il medesimo Movimento 5 stelle all’epoca abolito la povertà di quella proposta non si accorse nessuno: facevano i descamisados che avevano preso Palazzo Chigi mentre era Palazzo Chigi ad aver preso loro inscatolandoli come il tonno.
In questi giorni il brutto crocevia della propaganda è stato illuminato dalla demagogia dell’avvocato: la strada sbarrata al reddito di cittadinanza si è incrociata con quella scoscesa del salario minimo, e così da una parte il regalo di Meloni che ha combinato un disastro sul reddito e dall’altra Schlein che si è fatta rubare il salario minimo hanno innalzato per lui un bel tendone da circo equestre.
Al punto che oggi se si va in giro e si chiede chi sia il più duro dell’opposizione vi risponderanno che è lui a cantargliele chiare «alla Meloni», come si è espresso ieri in Aula, e vi risponderanno così perché la gente dimentica in fretta le malefatte, perché vive nel presente di una post-politica che nella versione di Giuseppi non è che la vecchia cara demagogia: il governo ruba ai poveri per dare i ricchi, cioè «ai politici», così, senza argomentare, risorge la Casta, l’idea parossistica che in fondo sono sempre «soldi nostri», e ci manca solo il vaffa finale come nei comizi grilleschi di dieci anni fa.
Per un assurdo della sua storia politica, Piero Fassino ha dato una mano enorme all’antipolitica ma poi, sconsolato dopo mezzo secolo di battaglie a sinistra, una cosa giusta l’ha detta: «Ormai qui non si può più ragionare». Vero, non si ragiona più. Non ragiona la maggioranza che ieri, per dire, ha fatto approvare un ordine del giorno di Fratoianni a favore di una patrimoniale (che il governo ha cassato due ore dopo), non ragiona Meloni quando sulla strage di Bologna “dimentica” la parola “fascista”, non ragionano Renzi e Calenda divisi sul Twiga, non ragiona un Partito democratico tuttora, nella costernazione di Romano Prodi, senza una chiara linea generale.
Nella crisi della ragione è dunque più facile per il Movimento 5 stelle esibire i suoi rilucenti vessilli della demagogia aggirandosi in una notte della politica nella quale tutte le vacche sono nere e ciò che appare è molto più importante di ciò che è realmente. E dunque il gioco delle tre carte, lo slogan efficace, la raucedine dei discorsi, tutto questo malcela un assoluto vuoto di idee ma evidenzia una persistente sintonia con lo spirito di un tempo così isterico, incerto, informe.
Il grillismo non è dunque morto con l’eclissi del suo inventore ma riappare nell’afa di questa stagione un po’ sudamericana, nel clima e nella politica, e si rinnova come la pelle di una lucertola nel sole d’agosto: il “sudamericano” leader del Movimento 5 stelle, l’ex amico di The Donald e dello zar, sta mettendo in difficoltà se non in ombra l’“americana” segretaria del Partito democratico che – sia detto a suo onore – non riesce a competere con l’incantatore di serpenti che suona il piffero del populismo. E questo non era prevedibile e, non si sa come dirlo, non suona neppure giusto.
Da Linkiesta
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