Per tagliare la spesa bisogna conoscerla, farla e consumarla scientemente, monitorarla. Per conoscerla bisogna farla dal negoziante di fiducia, per consumarla e controllarla cum grano salis occorre tenerla sott’occhio. La spesa va dunque consumata in famiglia e fatta nel supermarket sotto casa, non nell’ipermercato a trenta chilometri da casa, perché la distanza abbatte la convenienza e la dimensione confonde, la varietà di scelta induce a comprare quel serve al titolare dell’ipermercato, non a noi.
Vale per la spesa di casa come per quella di Stato: basta passare dalla spesa pubblica alla spesa federale, per impiegarla senza sprecarla, per contenere e controllare debito e deficit collettivi. A ben vedere, il vero cruccio del Governo dei tagli lineari è quello di non conoscere le fonti e la composizione della spesa pubblica, e siccome queste sono variabili misteriose anche per la Ragioneria di Stato, il taglio lineare diventa una questione di necessità e non di scelta politica.
La necessità non deriva tanto da incapacità o volontà di chi governa, quanto da un metodo errato: il prelievo fiscale avviene a monte mentre la spesa origina e finisce a valle, anzi nelle molteplici valli del territorio nazionale, ben distanti dalla sorgente da cui sgorga la cascata di liquidità che giunge in quelle valli con una dispersione paurosa, a causa degli ostacoli creati dalla secolare sedimentazione di vizi ed errori della politica e, quindi, della burocrazia amministrativa. Su quel monte sta la Ragioneria di Stato, sull’olimpo del monte risiede il Ministero dell’Economia e delle Finanze, fra olimpo e valli si insinua la gioiosa macchina infernale della burocrazia statale, una piovra mostruosa dai tentacoli lunghi e numerosi, talmente invadenti da rendere praticamente impercettibili quelle valli ai sensi dell’olimpo.
Come non bastasse, si spreca tantissima energia per raccogliere liquidità dalle innumerevoli valli e condurla a monte, spesso la pompa idraulica si inceppa, a volte si rompe e va cambiata, così la liquidità raccolta con il sudore della gente che popola le valli si disperde sia all’andata (valli-olimpo) che al ritorno (olimpo-valli). Si spiega perchè di quella liquidità resti ben poco da destinare alla gente delle valli, che così viene spesso chiamata dall’Uomo del Monte a dire “sì” a nuovi esborsi, nonostante ne abbia sempre meno voglia e sempre meno possibilità.
Bisogna quindi cominciare a dire di no a questo sistema sbagliato, occorre che l’Uomo del Monte dica “sì” a un cambiamento radicale del metodo errato che ha portato ad ingrassare le tasche di certi politici e burocrati, portando alla soglia di povertà tanti onesti contribuenti. Il metodo che ci ha portato alla rovina va semplicemente invertito: non deve essere lo Stato a calcolare a spanne le spesa che non conosce e sciupa, ad incassare dalle valli per re-distribuire a quelle valli una microscopica parte dell’incasso, al netto delle inefficienze burocratiche e degli emolumenti per la burocrazia. Dovrà essere invece il Governo del Territorio a determinare e gestire la spesa locale ed occuparsi del prelievo, sotto la stretta sorveglianza del contribuente. Parimenti, dovrà essere il Governo del Territorio, delegato e controllato dal contribuente locale, a decidere se e come devolvere fondi allo Stato perché esso possa assolvere in modo decente ai compiti che gli spettano per natura e non per imperio, ad esempio in materia di pubblica sicurezza, giustizia, politica estera e comunitaria, lasciando che il territorio e la sua gente facciano in autonomia quello che non spetta allo Stato e che quindi lo Stato riesce a fare poco e male, come la storia insegna.
In un mondo che sempre più ci vede parte integrante di un universo più grande, l’equilibrio fiscale cui tendere dovrebbe prevedere uno Stato forte ma non pesante, che sia capace di fare da trait d’union fra politiche fiscali comunitarie e nazional-federali. In tale contesto, le politiche comunitarie dovrebbero prevedere una armonizzazione fiscale per principi uniformi di massima, decisi in sinergia fra Stati comunitari e relativi governi territoriali. Quei principi di massima dovrebbero poi trovare applicazione a livello nazionale, con il contributo decisivo dei Governi del Territorio, secondo un metodo di convergenza federale in cui lo Stato assurge a collettore ed armonizzatore delle politiche fiscali territoriali e, al contempo, da cinghia di trasmissione fra politiche fiscali nazionali e comunitarie. Invertire il metodo potrebbe sembrare un’utopia, in un tempo in cui lo spettro dello statalismo sembra riaffiorare a causa della forza della crisi e della debolezza delle nazioni.
Così appare ma non è, in verità, in un’epoca storica in cui lo Stato è chiamato suo malgrado a sopperire a carenze strutturali della società civile, non avendo esso la forza per imporsi ed imporre ulteriore pressione fiscale – anche per assenza di adeguata rappresentanza – e trovandosi persino nella condizione di dover chiedere aiuto ai corpi intermedi della società per poter diventare più snello e flessibile, perché se continua così non ce la farà a campare, avendo a soli 150 anni un enorme sovrappeso, il fiato corto ed il cuore debole. Se non ora quando, vien da chiedersi usando una citazione assai pertinente, in questo contesto.
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