Cittadinanza, diritto di sangue o di suolo?

Giorgio Napolitano si è dimostrato senza ombra di dubbio il Capo saldo della Patria, una spanna su tutti gli altri, la persona che ha permesso al Presidente della Repubblica – in questo delicato frangente – di liberasi dal ruolo di facciata e rappresentanza che gli è istituzionalmente attribuito nei periodi in cui la politica italiana gode di buona salute. Ma anche il migliore dei presidenti può cadere in errore e se così non fosse, tutto sommato, si potrebbe anche dissentire da lui – siamo in democrazia – anche in tempi di consenso bipartisan, figlio dei meriti dell’uomo e della necessità del momento. Forse ha sbagliato, il Presidente, a porre la questione della cittadinanza agli immigrati nell’attuale contingenza, perché non è vero che con i tecnici al timone del paese il parlamento ha più tempo per dedicarsi anche a certe questioni, visto che tanto ci pensano i Monti Boys a fare uscire l’Italia dalla crisi. Al contrario, il parlamento è più che mai chiamato ad essere partecipe dell’azione di questo governo a-politico e concentrato a vigilare sul lavoro di ministri che governano in assenza del consenso popolare, privi di una adeguata cinghia di trasmissione con gli eletti, in mancanza della esperienza politica che a un governo di emergenza nazionale si richiederebbe. Certamente ha sbagliato, il Presidente – e l’errore è ancora più eclatante perché parliamo di Napolitano – a dichiarare folle una legge dello Stato, anche se sbagliata, non più attuale o migliorabile, posto che lo sia per davvero. Non è folle il principio dello ius sanguinis, che non è invenzione da prima o seconda repubblica, essendo la sua storia pari almeno alla sua attualità, considerato il fallimento del moderno multiculturalismo di Stato. Non lo è, parimenti, la legge attualmente in vigore in Italia, che su tale principio – in base al quale si diventa cittadini italiani per discendenza o filiazione – fonda il diritto alla cittadinanza italiana, pur apportando aggiustamenti di ius soli (diritto di cittadinanza in base alla mera nascita sul “suolo” italiano, come Napolitano vorrebbe tout court) o iure communicatio (trasmissione della cittadinanza all´interno della famiglia da un componente all´altro), al sussistere di determinate condizioni. Nessuna follia, perché la condizione di italiani riguarda le persone prima del territorio, perché tale condizione deriva dall’appartenenza a un contesto familiare più che dalla presenza sul posto, quando si viene al mondo. Nessuna follia, perché il sangue di famiglia – più della presenza sul suolo – crea le condizioni per diventare cittadini italiani. A ben vedere, il suolo sta al sangue come lo stato sta alla società, la differenza ha matrice culturale ed ideale. E se la società viene prima dello stato, allora cittadini italiani lo si diventa essendo italiani, poiché non si nasce italiani a prescindere dall’esserlo, per il sol fatto di essere nati su suolo italiano. Questo in quanto la cittadinanza è un valore, non declassabile a diritto acquisito, a prescindere dall’italianità. Per altro verso, non si può pensare di risolvere il problema della natalità in Italia conferendo la cittadinanza “di suolo” piuttosto che “di sangue” agli stranieri, abbassando cioè l’asticella dell’italianità, con il rischio di ridurre un valore a disvalore. Si creino piuttosto le condizioni per permettere agli italiani di fare figli senza che questo rappresenti un lusso inarrivabile, come oggi è. Si generino, in seconda battuta, le condizioni per consentire anche in Italia un processo di integrazione sano e responsabile, fondato sull’equilibrio fra diritti e doveri di chi accoglie ed è accolto, sul valore della cittadinanza e sul riconoscimento di tale valore da parte di chi vuole essere o diventare italiano, entrando nel nostro Paese. Si lavori quindi ad un equilibrio sociale sostenibile e solidale in cui il diritto alla cittadinanza non possa prescindere dal dovere di integrazione. La contrapposizione fra ius soli e ius sanguinis si attenua se il presupposto dell’essere italiani diventa la reale integrazione fra culture differenti, tenendo ben presente la differenza di posizione fra chi accoglie e chi è accolto. L’ integrazione è perciò sintesi fra suolo e sangue, perché ciò che conta è essere uniti nell’italianità, a prescindere dal luogo di nascita e dalla natalità. Forse meglio sarebbe però affrontare questo tema delicato – che merita calma, tempo ed attenzione – dopo il 2013, lasciando che i nostri parlamentari si occupino di altro in questo momento, perché il governo dei tecnici ha bisogno del loro supporto e del loro sguardo, per superare l’attuale momento di emergenza nazionale.

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