Ho, con 6 anni di ritardo, ascoltato l’incontro tra Marchionne e gli studenti della Bocconi. Prima parlava lui, poi rispondeva alle domande. Per me è stato un lungo rimpianto. Perchè era intelligente, aveva una visione e non solamente una mission. Quella, purtroppo per tutti noi, la dettava il consiglio di amministrazione in cui sedevano troppi Agnelli e assimilati. Non un pelo sulla lingua, anche in difesa di un Monti che già cominciava a scadere nel conigliesco, ma lui niente, anche se nella sua azienda i tremebondi e avveduti occhiuti carrieristi sono scomparsi al suo arrivo come polvere sui mobili alle pulizie di Pasqua. Naturalmente cercatelo su YouTube e ascoltatelo, ma qualche considerazione a braccio vale la pena farla: chiaro sempre e quando gli mancava l’italiano andava con l’inglese, perchè, al di là di Crozza, sempre piacevole ma sempre un comico, lui con l’inglese ha studiato e ci ha fatto carriera. Una carriera incredibile e corta, maledettamente corta. Non aveva intenzione di morire in FCA e lo diceva già allora, forse anche perchè i suoi “padroni” non gli erano particolarmente simpatici e forse perchè alla FIAT, diventata con lui FCA ci era venuto per amore dell’Italia. In troppi hanno urlato contro i tanti, troppi soldi che come CEO ha guadagnato, ma andatevi a vedere a che contratti ha rinunciato per entrare in un’azienda che il mondo automobilistico dava per fallita. La FIAT nel 2004, quando è arrivato, perdeva 5 milioni di euro al GIORNO, fatevi voi i conti (moltiplicando per 365, e lo capirete meglio se ascoltate il video) non aveva partnership straniere (tranne un vecchio contrattino con Citroen in Abruzzo) e per arrivare al 2004 si era dovuto vendere il brevetto del Commonreil e poi quello del Fire e nel frattempo lo Stato pompava soldi nella CIG ordinaria e straordinaria. Questo è quello che si è andato a cercare. Paradossalmente la crisi del 2008 gli ha dato quella mano che in Italia nessuno gli dava, né la politica, né il sindacato. Gli uni per poco ritorno di immagine e di prebende (gli Agnelli non sono usi pagare i servi, sono una monarchia assoluta), gli altri perchè di strilli in piazza vivono e non di concertazione seria sui posti di lavoro e sulle reali prospettive occupazionali. Ha inseguito partner internazionali (Ford, Opel, GM) ma tutti gli hanno cantato la stessa canzone: l’Italia è il paese più bello al mondo per venirci in vacanza, ma aprire fabbriche nemmeno morti. Si è arrabattato, ha inventato un mercato aziendale che nessuno voleva, perchè troppo occupati ad occuparsi dell’orticello italiano, mentre i numeri, e i soldi, si fanno con auto diverse e in mercati differenti. Ora non starò a parlare della sua politica industriale e aziendale, ma nel suo perenne insistere che il lavoro deve piacere, che il senso di appartenenza ad una squadra lo si dimostra con la voglia di stupire il capo e non di adularlo, che un italiano che voglia capire cosa c’è in giro, in giro ci deve andare, magari approfittando dei programmi di scambio scolastico. Di quanto un modello, quello anglosassone o americano, quando si impone ti costringe a giocare con quelle regole, poi cambiarle è storia non di un giorno, soprattutto se i paesi emergenti (Cina ad esempio) lo accettano. Sulla risposta alle domande è stato gentile, perché non costa mai niente e sfanculare è un segnale di debolezza e non di forza, ma sempre onesto. Diceva ci sto, mi piace, troppo complessa (voleva dire fumosa e generica). Valorizzava le parti intelligenti e sminuiva le cose ovvie. Ha avuto la platea in pugno, ma non per adorazione, per convinzione, erano veri discenti. Poteva fare molto ancora per noi, magari come suggeritore di chi avesse veramente voglia di ascoltare e magari contro i piazzaioli che si alimentano di mode e di pigrizia, seguendo gli slogan proposti. Non c’è più, ci sono le sue parole. Chi vuole qualcosa di diverso le ascolti. Perchè tutti urlano e sanno tutto, ma quando è ora di farsi operare non prendono il primo che passa per la strada, ma si informano e vanno da un chirurgo bravo.