Di Flavia Perina
La signora Rosa appoggia le mani sulla bara di legno chiaro di suo marito, il vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, ed è la foto più simbolica di una tragedia che, fino a poco tempo fa, avrebbe unito l’intero Paese, perché mai, almeno in anni recenti, l’Italia si è divisa davanti a poliziotti o militari morti in servizio.
Questo sentimento di comunanza lo scoprimmo con sorpresa nel 2003, all’epoca pre-social della strage di Nassiriya, quando migliaia di fiori, corone, biglietti, una distesa imprevedibile e spontanea di margherite e crisantemi, si ammucchiò sull’Altare della Patria: era un’Italia ancora lacerata tra antimilitaristi e militaristi, reduce dalle colossali marce pacifiste contro la guerra in Iraq, l’Italia delle bandiere arcobaleno sui balconi, e tuttavia non ci furono distinzioni nella commozione e nel lutto nazionale.
Oggi che il litigio sulle vittime è diventata una categoria politica, con leader e ministri impegnati a dissolvere ogni sentimento collettivo nelle loro provocazioni sul web, la morte di un carabiniere non ci fa più piangere insieme ma solo litigare. Chiedersi il perché è un buon modo per misurare il percorso nazionale e la qualità di una politica che dopo aver archiviato l’ideologia ha mandato in soffitta pure i progetti, e poi le narrazioni, per ridursi a scontro emotivo sulla cronaca nera.
Il ministro dell’Interno Matteo Salvini è senza dubbio al centro di questa nuova fenomenologia, un po’ per carattere, molto a scopo difensivo. I suoi predecessori a ogni grave fatto di sangue erano obbligati dal ruolo a mettersi in guardia e a rispondere delle circostanze: l’omicidio della povera Giovanna Reggiani, solo per citare un esempio che ricordano quasi tutti, aprì lo scontro che portò alla caduta del governo Prodi e alla sconfitta della sinistra a Roma.
Salvini no, Salvini sfugge alla sorte di parafulmine dell’indignazione collettiva spostandosi alla testa degli indignati: è lui che punta il dito evocando lavori forzati, pena di morte, carcerazioni tombali, facendosi ogni giorno più che voce dello Stato, megafono del cittadino arrabbiato. È una strategia semplice ed efficace, che salva il Viminale dalle polemiche più insidiose – quelle “vere”, politiche, relative ai fatti – tuffandolo nel mare fuffoso delle contese social. L’effetto collaterale è quel che vediamo oggi: tagliare col coltello i sentimenti del Paese, far sì che ci sia una destra e una sinistra su tutto, dai bambini manipolati di Bibbiano alla morte di un carabiniere, da una ragazza fatta a pezzi a Macerata all’evidente violazione di un indagato incappucciato in caserma, avvenimenti che in altri tempi avrebbero visto l’opinione pubblica quasi unanimemente solidale e unita nel chiedere verità, giustizia, provvedimenti.
l primo passo per uscirne, forse, sarebbe immaginare un Paese che, davanti a una vittima o a un carnefice, non si chieda come prima cosa “Era straniero o italiano?” e come seconda “Cosa ha detto il ministro?”
La brutta storia di via Cossa porta con sé molti interrogativi tecnici e giudiziari, ma la domanda che dovrebbe premerci oggi, nel giorno dei funerali di Mario Cerciello Rega, forse è più semplice: quand’è che a questo Paese sarà restituito il diritto di piangere insieme? Possiamo immaginare un’Italia che si commuova senza distinzioni davanti alle lacrime della signora Rosa o delle tante famiglie vittime di fatti di cronaca usati come stracci dalla destra e dalla sinistra? Pamela Mastropietro, Desirée Mariottini, lo sconosciuto bambino immigrato morto con la sua pagella in tasca, Adam e Ramy, i giovani eroi dello scuolabus dirottato a Crema, possono suscitare una partecipazione oltre le parti? La possibilità di coltivare sentimenti comuni non è un’invenzione romantica. Precede lo Stato di diritto e costituisce il telaio emotivo su cui governa Dike, la dea bendata che non riconosce fazioni, razza, colore, promette giustizia a tutti senza distinzioni e costruisce lo spazio nel quale ci riconosciamo reciprocamente cittadini.
Ecco, questa è la posta che la politica ha messo a rischio, trasformando la cronaca nera nel principale terreno di scontro fra partiti, leader, orientamenti culturali e elevando la nazionalità dei buoni e dei cattivi ad elemento-cardine su cui tarare indignazione e condanna. Il primo passo per uscirne, forse, sarebbe immaginare un Paese che, davanti a una vittima o a un carnefice, non si chieda come prima cosa “Era straniero o italiano?” e come seconda “Cosa ha detto il ministro?”. Ma ovviamente è un’aspettativa ingenua, l’Italia è diventata così e ce la terremo così ancora per molto tempo…
Da Linkiesta
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