«Ciao Nanni, ti sono vicino. Sursum corda». Firmato Marco Carrai, 16 maggio 2014. L’sms del Richelieu dell’ex premier Matteo Renzi a Giovanni Bazoli spunta tra i faldoni dell’inchiesta su Ubi Banca. E dà la tara sulle manovre che i renziani misero in moto per occupare i gangli del potere dopo l’insediamento del rottamatore di Rignano a Palazzo Chigi e quindi dopo aver deposto, grazie all’aiuto di Giorgio Napolitano, l’ex presidente del Consiglio Enrico Letta.
IL POTERE TRASVERSALE DI BAZOLI. Del resto, il potere di Bazoli sul tessuto economico-politico italiano è stato (ed è) illimitato. Nanni dava consigli all’ex sindaco di Torino Piero Fassino sulle fondazioni, parlava con Paolo Scaroni e Giuliano Pisapia per il Consiglio di amministrazione della Scala, si occupava di quello di Telecom, parlava con cardinali romani e col Quirinale, cercava contatti con il nuovo presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che poi agganciò anche grazie ai buoni uffici di Letta jr. Il messaggio di Carrai, quindi, va incastonato in una lotta di potere senza quartiere iniziata tre anni fa e non ancora del tutto conclusa, nel tentativo di scalata dei ragazzi di Firenze ai salotti e alle stanze dove si prendono le decisioni che contano. E che spesso non sono quelle della politica.
IL TEMPISMO DI CARRAI. Non a caso l’alfiere del renzismo recapitò per primo il suo messaggio al potente presidente onorario di Intesa Sanpaolo, allora ancora alla guida del Consiglio di sorveglianza, nel giorno in cui i quotidiani davano conto delle indagini della procura di Bergamo sulla banca bresciana. Sursum corda non è una frase a caso: è una vecchia espressione della messa in latino che significa “rincuoratevi”. Carrai, profondamente cattolico, è un attento studioso di questioni religiose, suo un pamphlet del 2006 contro Dan Brown e Il Codice da Vinci; ha contatti con l’Azione Cattolica, l’Opus Dei e Comunione Liberazione.
Quindi non stupisce che col vecchio banchiere religioso, il sacerdote della finanza bianca, legato alla tradizione del rito bresciano, abbia usato tutto il suo repertorio di conoscenze di rito canonico. Che però funzionò poco. Parlava a un mondo distante anni luce da quello dei rampanti ragazzi di Firenze: tra poteri vecchi e nuovi, gli unici punti di contatto sono quelli degli affari e forse nemmeno quelli. In teoria, a fare da tramite tra il mondo renziano e quello bazoliano ci sarebbe stato Gregorio Gitti, sposato con la figlia del banchiere, Francesca. Parlamentare eletto in Scelta Civica di Mario Monti e ora nel Pd, membro del Cda di Bassilichi con Carrai, l’avvocato bresciano, da quanto si legge nelle carte, non riuscì a smuovere più di tanto Nanni.
I LEGAMI TRA NANNI E IL GOVERNO LETTA. Prima che arrivasse Renzi, Bazoli aveva un amico a Palazzo Chigi. Con Letta il rapporto era ed è solido, e pure con alcuni dei suoi ministri, da Anna Maria Cancellieri – con cui il banchiere si sentì e al cui figlio avrebbe voluto affidare un incarico alla Mittel – a Fabrizio Saccomanni, traslocato nei Palazzi da Banca d’Italia e poi sostituito da Renzi per dare un segno di discontinuità in una casella chiave del governo. In una telefonata del 23 marzo 2014, un mese dopo la staffetta Letta-Renzi, Bazoli ringraziava proprio Saccomanni «per tutto quello che ha fatto in un periodo così difficile».
IL DECRETO DELLA DISCORDIA. Tra le cose che ha fatto Saccomanni c’è anche il decreto per la rivalutazione delle quote di Banca d’Italia in mano agli istituti di credito, e in particolare a Unicredit e Intesa. Una norma tacciata dall’opposizione pentastellata di essere un favore alle banche e che con l’arrivo di Renzi era diventata una spina nel fianco dello stesso Bazoli. Matteo voleva aumentare l’imposta da pagare su quelle rivalutazioni per finanziare il bonus da 80 euro e far tornare i conti che lo facevano litigare con Pier Carlo Padoan. Fu questo il tema per cui Bazoli entrò in contatto direttamente con il nuovo esecutivo su richiesta del manager di Intesa, Paolo Grandi.
L’8 aprile Grandi fece sapere di avere urgentemente bisogno di parlare con Bazoli perché «Renzi ha chiamato Patuelli, il presidente dell’Abi, per comunicare la volontà di elevare l’aliquota sulla plusvalenza di Bankitalia dal 12 al 26%». «Patuelli», spiegò il manager, «avrebbe chiesto di rivedere altri elementi dell’accordo, la decisione potrebbe non essere presa questa sera ma sarebbe opportuno un suo intervento a livello opportuno. A noi potrebbe costare 500 milioni di euro di ulteriori imposte».
IL TRAMITE DI ALFREDO BAZOLI. Nanni riuscì a fissare un incontro con Graziano Delrio, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio e quindi plenipotenziario di Palazzo Chigi, tramite il nipote Alfredo, eletto alla Camera nel 2013 per il Partito democratico. E successivamente il 18 aprile, parlando con il presidente della Cassa di risparmio di Padova e Rovigo, Antonio Finotti, fece sapere di essersi incontrato con Letta, Delrio e il “Colle”, dove sedeva ancora Giorgio Napolitano.
LE CRITICHE A RENZI. Anche quando Scaroni, in uscita da Eni, lo invitò a dare indicazioni sulle nomine nella aziende di Stato che in quei giorni occupavano molto i renziani – «Renzi andrà da Napolitano con la lista, per cui se uno vuole poter dire qualcosa…», gli disse al telefono -, Bazoli spiegò che aveva già fissato l’appuntamento con Napolitano e Delrio. Alla fine, in ogni caso, Renzi alzò l’aliquota al 26%. E in una telefonata all’amico Paolo Colombo, di cui ha dato conto la guardia di finanza, Bazoli criticò l’atteggiamento dell’allora premier sulle nomine nelle partecipate. Le scelte, faceva capire Bazoli in altre conversazioni, sono state usate in alcuni casi come bandiera del nuovismo.
Poteri che si sentivano investiti della missione della stabilità contro poteri che si volevano accreditare come nuovi king maker. In crisi i primi e in ascesa, fino ad allora, i secondi. E il trait d’union tra Prima e Seconda Repubblica, Carrai. In affari con l’ex Telecom ed Eni Franco Bernabè, ma pure con suo figlio Marco Norberto che ha investito nella Cambridge Consulting, il testimone di nozze dell’ex premier è l’emblema del potere renziano. Ed è stato lui in questi tre anni a tentare la scalata nel cuore del potere economico italiano e a cercare il rapporto diretto con Bazoli.
LA GALASSA DI INTESA. Il Richelieu di Renzi conosce bene alcuni uomini di Intesa. Anzi, con alcuni come l’ex top manager dell’It Pier Luigi Curcuruto è proprio in affari. Attorno alla banca guidata da Bazoli c’è infatti un mondo di toscani e renziani fedeli a Marchino e Matteo, a partire da Jacopo Mazzei, vicinissimo all’ex premier e nominato nel 2013 proprio nel Consiglio di sorveglianza. O come l’avvocato Umberto Tombari, avvocato civilista, docente di diritto commerciale e titolare dello studio legale dove hanno lavorato in passato sia il segretario alla presidenza del Consiglio Maria Elena Boschi sia Francesco Bonifazi, tesoriere del Pd, che nel 2014 venne nominato presidente della Cassa di risparmio di Firenze, azionista di Intesa.
«PUNTARE SU FRANCESCHINI». «Una persona che fin qui ci si è sempre dimostrata amica», commentò allora Grandi con Bazoli, aggiungendo: «Potrebbe essere il terzo polo di un fronte interno agli azionisti che consentirebbe di gestire l’immediato futuro con maggiore serenità». Ma l’assedio – o corteggiamento, che dir si voglia – ai vecchi bastioni del potere non andò per il verso giusto. Nel marzo del 2015, Carrai offrì a Bazoli il contatto del capo segreteria di Renzi per un evento. Ma l’incontro andò a monte quando Brunelli, già consigliere della Fondazione Cini e coordinatore del comitato scientifico del progetto cultura di Intesa Sanpaolo, gli recapitò un messaggio secco: «Lasciare perdere Renzi e puntare su Franceschini».
Se Bazoli snobbò il presidente del Consiglio che già da mesi veniva bombardato sul Corriere della Sera da Ferruccio De Bortoli, il direttore protetto fino a un certo punto proprio da Nanni, negli stessi giorni cercò invece il filo diretto con Mattarella, appena eletto al Quirinale. «La persona che ha buoni rapporti con lui è Letta», gli spiegò al momento dell’elezione Filippo Andreatta, figlio dell’ex ministro, mentre Mattarella «è stato un po’ scaricato negli ultimi anni da Franceschini». E a questo punto Bazoli si mosse per fissare un incontro con il capo dello Stato, per lui il vero riferimento dopo l’uscita di Napolitano. A vedere cosa è successo, ci aveva visto giusto.
Da: Lettera43
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