Di F Cancellato
Salvini apre a una diminuzione del 2,4% di deficit, ma non basta: perché quella italiana non è una questione di regolette e parametri con Bruxelles: in gioco c’è la tenuta finanziaria dello Stato. Ecco perché la vera trattativa è quella, informale e riservata, con Francoforte
Se i numeri sono quelli che girano, altro che decimali. Lo diciamo per chi crede che ormai sia fatta, che l’apertura di Salvini alla trattativa con l’Unione Europea – 4 miliardi di spese in meno ritardando reddito di cittadinanza sino ad aprile, portando il deficit al 2,2% – sia il preludio a una stretta di mano. Così fosse, sarebbe una vittoria politica di Lega e Cinque Stelle, enorme: potrebbero comunque dire di aver sfidato l’Europa e di averla costretta ad accettare un disavanzo superiore al 2%, quando l’asticella invalicabile, fino a poche settimane fa, era l’1,6%, al massimo. Non solo: Quota 100 e reddito di cittadinanza arriverebbero a due mesi scarsi dalle europee, in piena campagna elettorale, un po’ come gli ottanta euro di Renzi, nel 2014. Sappiamo come finì allora.
Il problema, semmai, è che molto difficile finisca così. Il motivo è molto semplice: perché dovete dimenticarvi i numeri che leggete sui giornali. In qualunque dei report che girano nel mondo finanziario, soprattutto in quelli riservati, la crescita dell’Italia per il prossimo anno è stimata allo 0,9%, addirittura allo 0,8% del Pil, in ogni caso ben al di sotto dell’1,5% stimato dal governo. Primo, perché si stima che il contributo alla crescita dei provvedimenti adottati dal governo Conte sarà molto più esiguo rispetto alle previsioni dell’esecutivo. Secondo, perché è in arrivo un rallentamento complessivo dell’economia globale che obbliga a rivedere al ribasso ogni previsione. Il risultato? Secondo ogni centro studi del pianeta, il deficit italiano finirà per superare, e non di poco, il 3% di deficit rispetto al Pil.
È da Draghi che arrivano le spinte a cambiare radicalmente la manovra del cambiamento. E non è un caso che siano Tria, Giorgetti e Savona, gli unici tre che nel governo hanno un filo diretto col presidente della Bce, quelli che più si sono esposti per cambiare tutto, alla luce delle mutate condizioni di scenario
Cosa significa? Semplice: che la trattativa di questi giorni non ha alcun senso. Che il debito aumenterà anche con 4 miliardi di spesa in meno. Che con ogni probabilità, anche se Salvini e Di Maio ammorbidiranno le loro posizioni, il deficit italiano sfonderà il muro del 3%. A quel punto il problema non sarebbe più della Commissione Europea, ma nostro: chi li compra i titoli di Stato di un Paese che non cresce e che aumenta il proprio disavanzo? La risposta è nell’asta semi deserta dell’ultimo collocamento del Btp Italia: nessuno, a questi tassi d’interesse, nonostante lo spread a 300.
Dovessimo continuare su questa china, altro che reddito di cittadinanza e quota 100 in piena campagna elettorale: sarebbe una corsa contro il tempo per evitare una tassa patrimoniale, o un prelievo notturno dai conti correnti prima delle elezioni europee per pagare gli stipendi della pubblica amministrazione o gli interessi sul debito, pari a circa 60 miliardi di euro, più o meno quel che spendiamo ogni anno nella pubblica istruzione. Ecco perché tra i banchi del governo e della maggioranza girano rassicurazioni sull’America dell’amico Trump che avrebbe assicurato di intervenire per salvare l’alleato italiano – lasciamo a voi immaginare come, a che prezzo e cosa ci sia di sovranista in tutto questo. Ed ecco perché più che alla trattativa e alle cene con Bruxelles bisogna tendere l’orecchio alle comunicazione informali con l’Eurotower di Francoforte, dove ha sede la Banca Centrale Europea guidata da Mario Draghi. Che si occupa di stabilità finanziaria, ricordiamolo, non di regolette e parametri da rispettare.
È da lì che arrivano le spinte a cambiare radicalmente la manovra del cambiamento. E non è un caso che siano Tria, Giorgetti e Savona, gli unici tre che nel governo hanno un filo diretto col presidente della Bce, quelli che più si sono esposti per cambiare tutto, alla luce delle mutate condizioni di scenario. Restano da convincere Salvini e Di Maio, certo, che si sono troppo esposti in queste settimane per permettersi passi indietro e a cui Juncker, per interposto Giuseppe Conte, ha chiesto solo di abbassare i toni e di evitare proclami, nei prossimi mesi. La trattativa è altrove. Ed è appena cominciata.
Da Linkiesta
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