L’ANALISI: Il procrastinare dei banchieri centrali e lo “short squeeze” azionario riportano lo S&P in positivo
La violenta ‘strizzata’ ai ribassisti pone ottobre come il quarto migliore dal ‘29
L’indice americano S&P500 dopo un mese di violento rimbalzo torna a rivedere un leggero segno positivo rispetto al dato di inizio anno, riportando così in verde il listino. Un prodigioso recupero, dopo la débâcle di agosto/settembre, in grado di riconquistare un altro e ben più importante livello, ovvero la soglia psicologica delle media mobile a 200 giorni. Un valore quest’ultimo posto di poco sopra i 2.060 punti e che rappresenta per molti operatori il vero spartiacque nei trend dei mercati. Indubbiamente quanto avvenuto non mancherà di frastornare molti risparmiatori, non fosse altro per l’elevata volatilità emersa da agosto ad oggi ed in grado di far rivivere montagne russe a cui non si era più abituati da almeno un paio di anni ma ciò non dovrebbe distogliere dal quadro economico reale e di rallentamento globale a cui devono in ultima analisi rispondere le quotazioni.
BANCHIERI IN PALLEGGIO
Un quadro che nell’ultima settimana ha nuovamente visto coinvolti i principali banchieri mondiali nel sostegno reale (PboC) o verbale (FED, BCE, BOJ) dei mercati. Se da un lato lo sterile comunicato della FED ha semplicemente calciato il barattolo in avanti fino al prossimo meeting di dicembre per quanto concerne il possibile rialzo dei tassi, si è però assistito ad un gioco di pesi e contrappesi tra i diversi banchieri centrali. Se infatti la Yellen continua a far giocare gli operatori sui tassi e mantiene in essere un alea di incertezza, è stato Mario Draghi ad edulcorare l’animo degli investitori facendo intendere che la BCE potrebbe espandere il suo QE prima della fine dell’anno, ovvero deciderlo a dicembre quando la FED, ora come ora, sembrerebbe più propensa ad agire. Un perfetto palleggio tra USA e UE che ha visto aggregarsi sul finale di settimana anche la Bank of Japan e questo grazie all’atteggiamento attendista che ha portato la BOJ a confermare la strategia monetaria in essere nonostante il taglio di mezzo punto percentuale sulle stime di crescita (da 1,7% ad 1,2%) e d’inflazione sempre più lontana dal 2% target. Una decisione a cui sono però prontamente seguite le “rassicuranti” affermazioni del presidente Kuroda sul proseguimento “all in” della politica giapponese, ossia dicendo che non c’è “alcun limite” a ciò che la politica potrebbe fare per uscire dall’impasse. Un procrastinare da parte delle tre principali banche centrali occidentali che ha portato la banca cinese (PobC) ad agire concretamente attraverso il taglio dello 0,25% dei tassi d’interesse con un contestuale abbassamento del tetto di riserva obbligatorio per le banche cinesi, al fine di mitigare il brusco rallentamento dell’economia del dragone e l’instabilità che da mesi attanaglia il mercato finanziario cinese. Decisioni cinesi che peraltro seguono i precedenti tagli di interesse (ben 64 da inizio anno) intrapresi da molteplici banche centrali in giro per il mondo, al fine di contrastare gli effetti indesiderati dei QE di FED, BOJ e BCE e per limitare il sempre più temuto “hard lending” economico innescato dal collasso delle materie prime.
“SHORT SQUEEZE” PER I MERCATI
La chiave di lettura dei mercati si fa perciò sempre più complessa e sembra che i ragionamenti logici abbiano lasciato ormai spazio solo ad algoritmi di trading per le compravendite piuttosto che a scelte basate sulle analisi fondamentali. Indubbiamente il contesto macro nell’ultimo mese è immutato, se non peggiorato nelle previsioni ma nonostante ciò si è assistito ad un ottobre con il quarto rialzo più importate dal 1929 per questo particolare mese.
Un qualcosa che dovrebbe inquietare piuttosto che rassicurare, a maggior ragione considerando il fatto che tale movimento sia perlopiù riferibile ad un importante “short squeeze”, ovvero ad una decisa chiusura delle operazioni al ribasso che emergevano prepotentemente nei dati forniti dal New York Stock Exchange nell’ultimo periodo ed i cui picchi non si vedevano dall’estate 2008, ossia pochi mesi prima del fallimento di Lehman.
Un violento rimbalzo che ha addirittura generato la più importante caduta mensile dell’indice VIX americano, ovvero della volatilità. Un qualcosa che dovrebbe apparire come la riprova dell’elevata instabilità che risiede nei profondi meandri dei velocissimi algoritmi di trading (high frequency trading) e con i quali gli operatori professionali provano a guadagnare in un mondo sempre più scarno di rendimenti attesi futuri. Una esasperazione che espone tutti i partecipanti al mercato, ivi compresi i piccoli risparmiatori, a crescenti ‘overreaction’, nonostante l’apparente e superficiale stabilità che i banchieri centrali tentano di protrarre con gli attuali “palleggi”.
“PARCO BUOI” A RISCHIO
Se l’elevata quantità di posizioni short ad inizio mese ha fornito il propellente per il repentino rimbalzo pocanzi descritto, non si deve dimenticare che uno “short squeeze” rimane pur sempre un evento “meccanico” che tende ad esaurire i suoi effetti nel breve termine, ovvero al progredire delle chiusure nelle posizioni precedentemente aperte per speculazione o per copertura. Una “strizzata” i cui effetti potrebbero essere ormai prossimi alla fine, essendo di nuovo tornati al punto in cui lo scorso maggio Janet Yellen disse che “le valutazioni dei titoli azionari sono in generale piuttosto elevate”. Valutazioni che hanno riportato le attività finanziarie aggregate (azioni, obbligazioni ecc.) delle famiglie americane nuovamente ai top di periodo, se rapportate al trend economico degli USA. Evidenziando così un gap positivo che suggerisce, almeno secondo ‘The Institute of International Finance’, una sopravvalutazione degli asset rispetto alle tendenze di lungo termine e di fondo dell’economia a stelle e strisce.
Per il momento però gli investitori privati americani restano per lo più focalizzati sulle rassicurazioni e sugli intenti di quei banchieri che dovrebbero preservare il loro patrimonio e continuano, seppur con minor spinta, ad alimentare i flussi d’acquisto sul mercato azionario. Se però vi sono acquisti non bisogna mai dimenticare che vi sono anche vendite e come riportato dal sito finanziario ZeroHedge, è forse il caso di porre maggiore attenzione su chi sta invece riducendo costantemente le proprie esposizioni sul mercato USA, ovvero gli operatori istituzionali e più recentemente anche gli hedge funds. Quello che sembra emergere da tali dati potrebbe rappresentare la più classica sintesi del cosiddetto “smart money / dumb money”, ovvero quel rapporto che lega gli investitori privati all’attività degli istituzionali, ossia l’utilizzo del mercato ‘retail’ per scaricare le posizioni che non sembrano più essere profittevoli per gli operatori professionali. Come dicono gli addetti ai lavori “you should buy, professional need to sell”, ossia il risparmiatore deve comprare perché i professionisti necessitano di vendere. Esponendo così le famiglie americane al rischio di ritrovarsi a tempo debito con il classico cerino in mano e con loro i molteplici partecipanti privati sparsi per il globo che, volenti o nolenti, saranno comunque coinvolti nel caso in cui la locomotiva dei listini azionari riprendesse a scendere.
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