L’ANALISI: banchieri centrali chiamati a decidere le sorti future di un “toro” ormai settennale
Prossime settimane decisive per la direzione definitiva dei mercati
Da tre settimane prosegue il tentativo di recupero dei mercati azionari grazie al consueto ed estremo “short squeeze” sull’indice S&P500, ossia l’inatteso rialzo delle quotazioni causato da una repentina chiusura delle posizioni al ribasso e che, manifestandosi da metà febbraio sulla locomotiva americana, ha trascinato con sé i principali listini mondiali.
I punti percentuali di perdita recuperati e mostrati nella tabella pubblicata sul sito dshort.com, sono poco meno di un decimo per l’indice cinese fino a più della metà per gli Stati Uniti, portando così ad un recupero globale di oltre 1/3 delle perdite finora subite rispetto alla massima discesa mostrata dai top del 2015.
Nel continuo tentativo di non lasciar cadere l’indice mondiale dei mercati azionari in quel “bear market” che a metà febbraio era stato per qualche seduta toccato, ovvero la conclamazione di un mercato orso con una discesa globale superiore al -20%, si è puntualmente verificato quella violenta “strizzata” che ormai caratterizza l’andamento del mercato USA da quando è finito il QE nell’ottobre 2014 e che da solo (pesando per quasi il 60% della capitalizzazione mondiale – MSCI World) è in grado di influenzare l’intero aggregato delle borse mondiali.
L’attuale rimbalzo sta consentendo all’indice americano di festeggiare così, con la quota di 1999,99 a venerdì scorso, l’ormai prossimo settimo compleanno di “bull market” con circa 1333 punti di rialzo da quel famigerato minimo a 666 avvenuto il 6 marzo 2009, ossia una variazione del +200% dai minimi assoluti e con esso anche un corale movimento degli altri listini azionari mondiali in quest’ultimo settennio.
La resistenza americana in prossimità dei massimi non è però confermata dagli altri mercati ed appare più come un ultimo tentativo di recupero prima di una prossima capitolazione in area “bear market” o almeno questo sembra osservando il movimento armonico e di parabola prima ascendente ed ora discendente che evidenziano i ribassi massimi (drawdown) raggiunti dall’indice americano rispetto al primo vero tentativo di ingresso in bear market nel 2011 (avvenuto alla fine del QE2). Da allora sono sempre stati più compressi i ribassi mentre ripartiva il mercato azionario americano grazie alla spinta propulsiva avviata e sostenuta da una sequenza di interventi monetari senza precedente della FED (Operation Twist, QE3, Tapering).
Una crescita in grado di catapultare il mercato USA fino ai livelli massimi di fine ottobre 2014 (similari a quelli di venerdì scorso) in cui lo slogan predominante degli operatori è stato “buy the deep”, ossia compra sempre sui ribassi in quanto il trend è al rialzo e sostenuto dalla FED ed a cui era associato un altro ed ormai famigerato motto di quei tempi e noto come “don’t fight the FED”, non combattere la FED e non puntare sul ribasso dei listini.
Massimi poi superati di qualche punto percentuale e per diversi mesi grazie all’intervento ‘monster’ ed apparentemente inaspettato della Banca del Giappone e sequenziale del più volte invocato QE della Banca Centrale Europea.
Completato il passaggio di testimone nelle politiche monetarie di QE dagli USA a Giappone ed Europa a fine marzo 2015 e raggiunto lo zenit delle quotazioni massime dei listini azionari proprio nel momento in cui le due banche centrali (BCE e BOJ) hanno iniziato a stampare all’unisono, si è da allora avviato un lento declino la cui discesa è aumentata quando la Cina ha svalutato lo yuan (agosto 2015) e la FED ha rialzato i tassi (dicembre 2015), evidenziando così in questi due attori ed in tali decisioni di politica monetaria (tassi per Washington e svalutazione per Pechino) il vero pivot dei mercati e l’effetto reale che sono in grado di produrre sul resto del mondo.
Mentre i due pachidermi dell’economia globale provano ad uscire dai rispettivi cul-de-sac (tassi zero e cambi fissi) non sembra però essere emerso nulla di concreto dall’ultimo G20 tenuto a Shangai, ovvero nessun reale coordinamento globale in grado di gestire in modo ordinato la transizione ormai avviata e volta alla normalizzazione del sistema monetario e del suo eccessivo indebitamento.
Dal G20 sono infatti emerse solo generiche indicazioni proposte dal consueto FMI e rivolte ai diversi governi al fine di perseguire riforme strutturali e politiche fiscali in grado di sorreggere una crescita globale in sempre più forte affanno e che non trova più nelle politiche monetarie delle banche centrali un adeguato sostegno.
In un tale contesto la reazione avviata da metà febbraio dai mercati è finora stata quella di anticipare nonché auspicare un’azione globale in grado di puntellare l’economia reale e dunque dare qualche concreto elemento di sostegno ad un mercato dei capitali da tempo disconnesso dalla realtà economica e che potrebbe non più reggerne il peso, col rischio concreto di oltrepassare quella linea di demarcazione a cui si era arrivati e che avvierebbe definitivamente un ‘bear market’ atteso da tempo ma finora procrastinato dalle banche centrali e dalle politiche espansive adottate.
I prossimi dieci giorni saranno perciò fondamentali per capire cosa realmente avranno deciso di fare i banchieri dopo il summit di Shangai e con le loro scelte quale sarà la direzione che prenderanno i mercati dei capitali. A partire dal 10 marzo aprirà i lavori Mario Draghi e considerando le sue precedenti esternazioni del tipo “non ci sono limiti a quanto vogliamo e possiamo fare per raggiungere il nostro obiettivo” non vi è dubbio che siano riposte su di lui le maggiori aspettative, seppur poi Kuroda possa il 15 marzo stupire come in passato con ancora più inaspettate decisioni della BOJ, per terminare il giorno successivo con la Yellen e le scelte della FED sui tassi.
Gli operatori hanno finora scommesso su qualcosa di così importante, in ambito di azioni monetarie, da aver avviato un deciso “short squeeze” volto a saltare a piè pari quel baratro che tre settimane prima era apparso davanti a loro e rispondeva al nome di “bear market” ma se tale acrobazia non troverà a breve e sotto di essa nuove e più solide reti di protezioni da parte dei banchieri citati non mancherà di mostrarne i dolorosi effetti e confermerà in modo più o meno traumatico il più classico e noto detto di Borsa, ossia “buy on rumors and sell on news”.
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